di Andrea Metta
Passato un mese dalla scelta di Fallaye Dabo di porre fine alle proprie sofferenze, nessuno ha più parlato di un tema dolorosissimo come la piaga dei suicidi dei braccianti agricoli.
Sì, Fallaye Dabo era un bracciante che lavorava vicino Foggia e che poche settimane fa ha deciso di suicidarsi. L’ha fatto nelle campagne dove lavorava e per pochi giorni si era sollevato finalmente il tappeto sotto il quale queste storie vengono nascoste. Poi tutto è tornato a tacere. Non è difficile immaginare le motivazioni che portano molti lavoratori a preferire la morte ad una vita di sfruttamento.
Ogni volta se ne parla sperando che sia l’ultima eppure queste tragedie continuano ad accadere.
Non si era fatto attendere il commento di Aboubakar Soumahoro (sindacalista e fondatore di un nuovo soggetto politico, Invisibili in Movimento) neanche quella volta, anzi, è stato tra i primi a dare la notizia. «Nel sostenere i familiari in questi momenti di atroce dolore, chiediamo che sia ascoltata la sofferenza spirituale e materiale dei braccianti – disse – non permettiamo che l’avidità economica, l’indifferenza sociale e la mancanza di coraggio della politica fagociti i braccianti in un abbrutimento disperante che finisce per uccidere la vita in loro».
Perché è questo che sta alla base di gesti come quello di Fallaye Dabo. Rincorsa al profitto di padroni che genera disperazione in persone che hanno quasi niente, sfruttate per tenere bassi i prezzi di prodotti alimentari. Non era il primo purtroppo a scegliere di non vivere di sofferenze, in tanti chiedono contratti in regola per poter iniziare una vita migliore di quella che hanno lasciato nel luogo natio. Spesso ciò non viene concesso e il peso di questi rifiuti è troppo grande da sopportare.
Togliersi la vita è l’atto massimo che un essere umano possa intraprendere, spinto solo dall’assopirsi dell’istinto di sopravvivenza.
Il dolore sovrasta la voglia di riscatto e di sognare il meglio per se stessi. Queste persone hanno deciso di lasciare la propria casa per cercare una speranza. Mossi da disperazione, hanno accettato condizioni pessime. Il problema è che determinate condizioni non dovrebbero essere offerte, ledono la dignità di ognuno di noi.
Fallaye Dabo non ce la faceva più e come lui tanti, tantissimi altri. Alcune terre si stanno sporcando di sangue, un sangue che quando cade non fa rumore e che necessita di essere raccontato. Fallaye avrebbe potuto chiamarsi Roberto o Angela e subire lo stesso trattamento. Questa situazione tocca dei lavoratori, persone che prestano il loro servizio in cambio di uno stipendio.