di Alba Mercolella
Questo articolo vuole mettere in luce il ruolo della comunicazione nei conflitti armati che hanno coinvolto diversi Paesi dell’ex-Jugoslavia negli anni ‘90 portando degli esempi precedenti, contemporanei e successivi alla guerra.
Prima. Il ruolo delle élites etniche nella manipolazione dei media
Nel conflitto balcanico è interessante osservare la manipolazione dei media da parte delle élites etniche. Questo perché le élites etniche hanno un ruolo considerevole nei processi di nazionalismo come progetto politico: l’«intellighenzia culturale» della nazione punta al controllo delle risorse per la comunicazione, è formata da persone istruite che conoscono la retorica e le fonti dell’identità culturale con cui vengono costruiti i discorsi su una particolare etnia (Painter & Jeffrey, 2009). A che pro? Fomentare odio e paura (De Angelis, 2007).
Nei Paesi dell’ex-Jugoslavia, in particolare, alla fine degli anni ‘80 si assiste all’esplosione delle questioni etniche parallelamente al crollo del comunismo. In questo periodo la lotta per il potere cambia scenario e posta in gioco: ad ogni costo, i gruppi etnici cercano di prevalere l’uno sull’altro (Pejic, 1993). All’epoca ancora non si poteva conoscere l’entità di questo costo, ma oggi ci è noto: un genocidio, fame, miseria.
Seguono alcuni esempi di manipolazione e controllo dei media nelle ex Repubbliche Jugoslave. Questi sono tratti da un articolo apparso sulla rivista “Problemi dell’informazione nel ‘93 scritto da Pejic, all’epoca giornalista di TeleSarajevo.
L’esempio della Croazia e della Serbia
Con le suddette basi, in Croazia il passo alle tattiche di manipolazione è presto fatto. L’élite controlla soprattutto i media radiotelevisivi e impone una linea, per cui i programmi dovevano essere pensati e realizzati «in nome degli interessi etnici», con buona pace della deontologia professionale (Pejic, 1993).
L’esempio serbo è il più precoce. Alla fine degli anni ‘80 avviene una separazione dei sistemi dei media dell’allora Jugoslavia: ad ogni sistema è assegnato il controllo della corrispettiva Repubblica. Tutti se ne approfittano e, col tempo, ogni sistema mediale inizia a sostenere unicamente la propria propaganda nazionalista (De Angelis, 2007). In Serbia questo si verifica già nell’87 (Pejic, 1993) e, in questo contesto, riusciranno ad inserirsi bene le Tigri di Arkan (Racioppi, 2015), le cui azioni vengono dipinte con toni eroici dalla televisione serba (Pejic, 1993).
Odio e paura predominano da una parte e dall’altra. I serbi e croati si dimenticano della loro passata convivenza, della lingua e delle precedenti relazioni economico-commerciali.
I collegamenti non solo di strade e ferrovie, ma anche telefonici e di scambio di informazione, vengono recisi. I partiti esercitano pressioni sui giornalisti: alcuni provano a fare resistenza, ma, complice anche il mancato coordinamento delle loro azioni, si assiste alla loro sostituzione con giornalisti “etnici” (Pejic, 1993).
L’esempio della Bosnia
Sul versante bosniaco, per Pejic la resistenza è più forte. Nessuno dei gruppi etnici rappresenta la maggioranza della popolazione: nel 1993 il 44% della popolazione è bosgnacca, il 33% croata e il 14% serba. Di conseguenza, nessuno riesce a predominare nel campo dell’informazione.
TeleSarajevo, l’emittente principale, è una televisione libera già nel 1990, ma con le elezioni multipartitiche di quell’anno le cose cambiano: tutti i partiti etnici cercano di entrare nella redazione, fra mazzette e minacce, per cercare di prevalere.
Per quanto TeleSarajevo cercasse di restare imparziale e indipendente, Pejic (1993) osserva come “sul fronte serbo riuscivano a lavorare solo inviati della televisione serba, mentre sul fronte croato riuscivano ad operare solo giornalisti della televisione croata” (Pejic, 1993, p. 53).
Il conflitto, prima dei massacri, è passato da qui: dai programmi televisivi delle élites etniche, con lo scopo di mantenere vivo il consenso per una guerra tremenda.
I messaggi del prof. Vidanovic di Nis, sito web
Durante. Il diario online di Djordje Vidanovic: cronache da Niš
Passa qualche anno e la Serbia, durante la primavera del ’99, è sotto i bombardamenti NATO. La corrente elettrica salta spesso, così come i collegamenti televisivi e ad Internet.
Sotto il cielo della città di Niš qualcuno ha un intenso scambio di email con l’Italia. È il professor Djordje Vidanovic, che insegna Linguistica e Semantica presso l’Università della città. Questo scambio di email è disponibile sul sito di Peacelink.
Sono parole che fanno gelare il sangue, se si pensa che sono state scritte sotto i bombardamenti, ma anche un esempio davvero innovativo per l’epoca del racconto della guerra in diretta.
Tra gli obiettivi bellici strategici sono fortemente presenti i mezzi di scambio di informazione. E c’è mancato tanto così, nella notte del 22 aprile ’99, dal veder sparire il dominio yugoslavo dalla faccia di Internet:
“EMERGENZA ! Vidanovic mi ha detto che la NATO li minaccia di far bandire
da tutta la rete il dominio Internet yugoslavo. Non so se le loro fonti
siano attendibili, ma temo di sì, dopo il can can che ha fatto Massarini
sulla presenza degli hackers serbi e sui danni al sito della NATO.”
La notte seguente, qualcosa di grave accade davvero: gli aerei della NATO bombardano la sede della TV di stato serba.
I morti sono 16 e la precisione millimetrica delle bombe rende chiaro ed evidente l’obiettivo della NATO: l’ala centrale dell’edificio, dove l’equipe tecnica era al lavoro. La strage della RTS sarà tra i punti trattati dal Tribunale Penale Internazionale per la ex Yugoslavia. Le tesi difensive presentate dalla NATO vengono definite “fantasiose”.
Durante quella notte vengono colpiti anche tutti i ripetitori televisivi serbi, insieme a tanti ponti e al principale ufficio postale di Uzice, città di 100mila abitanti. Lo racconta Djorde Vidanovic, in diretta, sgomento e incredulo:
“Era la maggiore emittente televisiva in questa regione
dei Balcani, e la più sofisticata. A prescindere dal contenuto dei
programmi, che non apprezzavo granché, credo che questo bombardamento sia un atto
immorale, inaudito. Nemmeno i Nazisti, nemmeno i barbari, nemmeno Attila,
nessuno ha mai avuto il coraggio di compiere atti del genere.
Era una rete televisiva, accidenti.”
Questo scambio di email arriva fino al giugno del ‘99. A quelle riportate qui seguiranno la sua testimonianza sulle bombe a grappolo, sui bombardamenti sugli ospedali e non solo. Alla fine di maggio, manderà la figlia a Subotica per la sua sicurezza. Lui arriverà in Italia con sua moglie il 22 giugno.
Dopo. Il caso della pagina Wikipedia su Srebrenica
C’è uno studio comparativo, anche se non troppo recente, condotto su una selezione di articoli su Wikipedia riguardanti il genocidio di Srebrenica.
Gli articoli analizzati risalgono al 20 dicembre 2010, creati fra il 2002 e il 2005, e sono stati scritti nelle lingue delle tre parti più coinvolte (olandese, bosniaco e serbo). Viene analizzata anche la versione in lingua inglese degli articoli.
Lo studio dimostra la loro non neutralità e si conclude sostenendo la tesi della normalità della differenza culturale, perlomeno nei casi di articoli politicamente controversi.
Cosa sostiene questa tesi? Che esistono sì delle versioni madri, ma queste non vengono semplicemente tradotte. Le differenze sono presenti anche nei titoli, e non sono di poco conto.
L’unica cosa che accomuna tutti gli articoli è la presenza della mappa di Srebrenica e della foto delle tombe
Nel caso del genocidio di Srebrenica, le differenze stanno nel considerare l’evento come a sé stante o meno, nel seguire le sentenze del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia o della Corte internazionale di giustizia (versione inglese, bosniaca e croata) o dal considerare la caduta della città come tema principale (articolo olandese).
Ben pochi di questi articoli condividono titolo, indice, redattori, citazioni, argomento e riquadro informativo: la versione serba e quella croata trattano i fatti dal 1992 al 1995, l’articolo in olandese considera la caduta della città e gli articoli in inglese e bosniaco si concentrano sul massacro dei bosniaci mussulmani maschi. Cruciale, è la mancata omogeneità tra gli articoli riguardo il numero delle vittime, da ricondursi alle documentazioni delle diverse autorità nazionali.
Un’altra questione delicata, evidenziata dalla scelta delle immagini che corredano gli articoli, è l’età delle vittime. L’articolo in bosniaco si concentra sulla giovane età delle vittime (non considerabili uomini e quindi combattenti, come il caso della foto della tomba di un tredicenne); gli articoli in serbo e in olandese contengono poche immagini, perlopiù mappe, la foto del cimitero di Potočari e le bare coi drappi verdi.
L’unica cosa che accomuna tutti e tre gli articoli è la presenza della mappa di Srebrenica e della foto delle tombe (Rogers, 2013).
E quindi?
Perché sentire la necessità di ripercorrere le conseguenze dei conflitti dei Balcani sui media? Perché questi meccanismi tendono a ripetersi e sempre si tende a non focalizzarli prima che la situazione degeneri nella maniera peggiore. Ma se la comunicazione può fomentare odio e rabbia, la speranza è che un giorno possa riuscire ad alimentare sentimenti opposti.
Si tratta di un’utopia? Forse, ma è bello averla.
Immagine in evidenza: pagina del “Corriere della Sera” del 24 aprile ’99
Fonti:
De Angelis, E. (2007). Guerra e mass media. Roma: Carocci.
Painter, J., & Jeffrey, A. (2009). Geografia politica. Torino: UTET Università.
Pejic, N. (1993). Jugoslavia/Se vuoi la guerra, manipola i media. Il ruolo dell’informazione nel conflitto etnico. Problemi dell’informazione, (1), 47–55.
Racioppi, C. (2015). Le organizzazioni criminali balcaniche. Alle origini di un fenomeno complesso. Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, v. 1, n. 2, p. 57-83.
Rogers, R. (2013). Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web. Bologna: Il Mulino.