di Roberto Cascino
Questa ultima sessione del Consiglio europeo è stata particolarmente densa di questioni importanti sia per i singoli Paesi (per l’Italia la notizia dell’approvazione del piano legato a Next Generation EU), che per l’intera Unione (con i leader europei che hanno finalmente preso una posizione dura nei confronti di Viktor Orban per l’ultima delle sue trovate bislacche anti LGBTQ+).
Eppure, non si può considerare questo incontro tra i capi di governo dell’Ue come un successo. Tra i temi che si sono affrontati nei giorni passati, infatti, era stata calendarizzata anche la gestione dei flussi migratori, un argomento che da tempo non rientrava nelle priorità dell’agenda politica comunitaria.
La questione, che evidentemente sta a cuore ad alcuni Paesi rispetto che ad altri, è stata anticipata nelle scorse settimane da speculazioni giornalistiche e politiche di mutamento del meccanismo di distribuzione dei richiedenti asilo, di solidarietà europea, persino, si sussurrava, di una riforma del Trattato di Dublino.
Le aspettative molto alte sono state fomentate anche da un quadro politico internazionale diverso da quello del recente passato. Trascorsa l’emergenza sanitaria dello scorso anno, sono ripresi in numero maggiore gli sbarchi provenienti dalle coste di Libia e Tunisia lungo tutti i punti di approdo del Mediterraneo.
Le premesse sono state frustrate dalla doccia fredda della realtà: già dal 23 giugno, ovvero dal giorno prima dell’inizio dell’incontro, circolava la bozza finale sul tema migrazione che il Consiglio avrebbe poi concordato effettivamente nel corso del summit.
“Il Consiglio europeo invita la Commissione e l’Alto rappresentante, in cooperazione con gli Stati membri, a presentare piani d’azione per i Paesi prioritari di origine e transito delle migrazioni nell’autunno 2021(..)”
Tradotto: decidiamo di non agire subito, nel momento di maggiore necessità per i Paesi da cui parte il flusso migratorio e per i Paesi europei che si trovano come ogni anno impreparati di fronte alla situazione emergenziale.
La nota diffusa poi prosegue in questo modo:
“Il Consiglio invita la Commissione a fare il miglior uso possibile di almeno il 10% della dotazione finanziaria di Ndici, nonché di finanziamenti nell’ambito di altri strumenti pertinenti per azioni sulla migrazione, e di riferire al Consiglio entro novembre”.
In soldoni: paghiamo Paesi conniventi affinché blocchino nei loro confini migliaia di persone e impediscano loro, con ogni mezzo, di cercare di arrivare in Europa. Per questo Egitto e Tunisia saranno usati come base per i rimpatri, mentre in Libia e Turchia, per cui è già stato ufficializzato un accordo di 3 miliardi di euro per i prossimi tre anni, si lavorerà per impedire le partenze.
Denaro in cambio di rifugiati, un accordo che in fondo è in vigore già da alcuni anni e risponde alla precisa volontà politica di esternalizzare la gestione delle frontiere, e di conseguenza il problema migratorio.
Sembra assurdo ma bisogna ogni singola volta ricordare che quando si decide di esternalizzare i controlli, o fermare il flusso migratorio a monte, si condannano a morte migliaia di persone.
Una parte di questa moltitudine morirà nei Paesi di origine, stroncate da crisi economica, climatica o sociale.
Una parte morirà lungo il percorso intrapreso fino alla cornice del Mediterraneo o dell’Asia più vicina.
Una parte morirà, dopo essere stata schiavizzata e torturata, nei centri di detenzione di Turchia e Libia (centri che finanziamo con miliardi di dollari di tasse europee ogni anno).
Una parte morirà nel mare, nei boschi dei Balcani o addirittura sulle strade europee, cercando di percorrere gli ultimi chilometri prima di raggiungere la meta.
Non siamo qui a fare l’esegesi del fallimento, ma è giusto indicare di chi sono le responsabilità di questa situazione, che non risolve il problema ma ne crea molti altri; che espone l’Europa a tanti ricatti, come avvenuto anche nel più recente passato, da parte di dittatori e criminali; che, soprattutto, svela la grande ipocrisia della gabbia dorata di cui stiamo tirando su le sbarre senza curarci troppo di chi rimane fuori.