di Alba Mercolella
È interessante guardare all’attentato alle Torri Gemelle con gli occhi di oggi, soprattutto a seguito del ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan concluso il 30 agosto anziché nella data simbolo dell’11 settembre.
Il Presidente Biden lo aveva annunciato ad aprile: “Gli Usa hanno raggiunto il loro obiettivo in Afghanistan 10 anni fa quando il leader di al Qaida Osama bin Laden fu ucciso da un commando americano“. E poi: “Il ritiro dall’Afghanistan sarà ordinato, non precipitoso, e sarà coordinato con gli alleati Nato“.
Oggi sappiamo che il ritiro dall’Afghanistan non è stato né ordinato e né non precipitoso. Saltato il proposito di concludere il conflitto a vent’anni esatti dall’attentato che portò ad intraprendere una lunga guerra, il ritiro che sarebbe dovuto avvenire il 31 agosto è stato anticipato di un giorno. Più che un ritiro, è sembrata quasi una fuga, un “si salvi chi può”.
Non ci si dilungherà oltre nel descrivere gli avvenimenti delle ultime settimane. Quello che possiamo fare, come molti hanno fatto finora, è osservare i fatti che si susseguono e rifletterci sopra. Deve passare ancora del tempo prima di poter giungere a delle conclusioni circa quanto accaduto finora.
Una cosa che si può fare, è tornare con lo sguardo al passato. Perché vent’anni fa, in un giorno di fine estate in cui la metà dei Millennial italiani stava guardando la Melevisione, tutto l’Occidente era attaccato al piccolo schermo.
Perché gli attentati a New York sconvolsero il mondo?
Per comprendere l’attentato alle Torri Gemelle occorre fare un passo indietro.
Col crollo dell’Unione Sovietica, per quanto non si sia verificata la “fine della storia” come teorizzato da Fukuyama nel suo “La fine della storia e l’ultimo uomo”, gli equilibri cambiano. Finché il mondo era bipolare, con gli USA da una parte e l’URSS dall’altra impegnati nella Guerra Fredda, esisteva una parvenza di dialettica internazionale in cui erano possibili cambiamenti e miglioramenti.
Quando il Muro di Berlino crolla, gli Stati Uniti cercano di affermare la propria supremazia a livello globale (Gambino, 2005). In questo periodo storico gli USA non hanno rivali in politica, in campo militare ed economico e nessuno vuole sfidare la sua leadership (Parisi, 2018).
Dieci anni più tardi, gli attentati di Al Qaeda riescono a mettere in crisi l’immagine e lo status degli USA (De Angelis, 2007): la guerra ritorna e ci si rende conto che la periferia del mondo è in grado di arrivare al cuore dell’Occidente (Parisi, 2018).
L’amministrazione Bush definisce la situazione: gli USA si propongono come polizia globale per tenere a bada il terrorismo e i media americani la accettano, affrontando la questione parlando di “guerra inevitabile” (De Angelis, 2007).
La copertina de “La fine della storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama, uscito nel 1992.
In questo contesto, dai mezzi di comunicazione emergono più narrazioni concorrenti. Si riporta una citazione tratta da “Guerra e mass media” del giornalista Enrico De Angelis, uscito nel 2007:
“Uno spettatore americano può sintonizzarsi sulla BBC o accedere ai siti dei giornali inglesi ed europei. La CNN offre un segmento, chiamato Arab Voices, che riassume i contenuti dei media arabi. La Nbc trasmette Listening Point, che racconta le reazioni internazionali alla guerra. Così muore il monopolio dell’informazione occidentale […]. La narrazione americana del conflitto si indebolisce a confronto con le altre narrazioni alternative che acquistano di volta in volta maggiore visibilità.”
Come anticipato (o meglio ricordato), all’epoca il mezzo predominante era la televisione, ma anche la diffusione di Internet ha un ruolo. Il pubblico, in questo periodo, inizia a segmentarsi sempre di più e i flussi di informazione si moltiplicano, rendendo l’informazione sempre più pluralista (De Angelis, 2007).
Un esempio? La delegittimazione dell’attacco all’Iraq nel 2003, quando la presenza nel Paese di armi di distruzione di massa si rivelò falsa: grazie alle informazioni, si resiste alla manipolazione (Van Dijk, 2006).
Il mondo prima. Come veniva raccontato e vissuto un evento in diretta vent’anni fa?
Nel 2001 il mezzo di comunicazione predominante è la televisione, ma Internet c’è ed è proprio in quegli anni che sempre più persone cominceranno ad utilizzarlo.
Dopo aver assistito agli attentati sul mezzo televisivo, è sulla rete che avviene la discussione pubblica: se il primo mostra la catastrofe e il vuoto dettando l’agenda, è attraverso la rete che si cerca di costruire un senso (Alfieri, 2014).
Nel settembre del 2001 non esistevano né Facebook, né Twitter e nemmeno l’ormai desueto MySpace. Eppure, si può ritrovare qualcosa di simile: un post su Metafilter. Si tratta di una delle più vecchie comunità online, che all’epoca si autodefiniva un “weblog”.
Il post su MetaFilter sugli attentati dell’11/09
L’articolo di Anslow, pubblicato nel 2016 sul blog Timeline della piattaforma di blogging Medium, riporta le immagini delle homepage apparse quel giorno sui siti web della “CNN”, del “New York Times”, di “Fox News”, della “BBC”, di “Le Monde” e l’homepage del motore di ricerca Google, in cui vengono date le condoglianze alle vittime e viene fornita una lista di link utili. Sempre su MetaFilter, viene creato per l’occasione un collegamento diretto alla pagina riservata alle donazioni della Croce Rossa, oltre che un servizio online per aiutare le persone a tenersi in contatto.
Ecco come si presentava la homepage di Google l’11 settembre 2001
Un punto di non ritorno: la paranoia verso il mondo arabo
Gli attentati alle Torri Gemelle rappresentano un punto di non ritorno nella percezione dell’alterità, in particolare del mondo arabo.
La prima dimostrazione si ritrova nel riesame della politica migratoria italiana nell’ottica della sicurezza verso una chiusura (Melotti, 2004). A ciò si aggiunge l’effetto prodotto dalle immagini, continuamente proposte dai media in quegli anni, degli aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle, che entrano a far parte dell’immaginario collettivo occidentale, alimentando un senso di paranoia verso il mondo islamico. Cambia l’atteggiamento verso i migranti (soprattutto islamici) e le differenze culturali a causa del discorso massmediatico (Amico & Villano, 2007).
Quanto appena spiegato ha un ruolo strategico nella comunicazione tra le élite (politiche, giornalistiche, accademiche) ed i gruppi sociali: è in questa sede che vengono trasmesse all’opinione pubblica ideologie e rappresentazioni sociali (Amico & Villano, 2007).
I livelli odierni di islamofobia in Europa e in Italia oggi sono una conseguenza anche delle rappresentazioni di quegli anni.
Van Dijk afferma che negli USA sono state messe in atto delle strategie di manipolazione, in particolare di generalizzazione.
Cosa vuol dire? Gli attentati hanno avuto un forte impatto emozionale e di opinione sui modelli astratti, le paure condivise, le attitudini e le ideologie sul terrorismo. Grazie alla potenza di diffusione dei mass media, ciò ha travalicato i confini nazionali (Van Dijk, 2006): le ricerche sui media europei mostrano come le minoranze etniche vengano dipinte dai mass media in modo negativo e stereotipato, fino ad arrivare all’“associazione per semplificazione dell’ “immigrato” all’ “arabo”, […] accade che le due parole finiscano per condividere, oltre che la comparsa nelle stesse sfere semantiche, anche lo stesso alone emozionale” (Amico & Villano, 2007, p. 59). Attraverso la ripetizione dei messaggi e la strumentalizzazione di eventi simili (si pensi ai seguenti ad alcuni attentati avvenuti successivamente, come l’attentato di Madrid nel 2004) si alimenta una polarizzazione tra “noi” e “loro” (Van Dijk, 2006).
E in Italia? Gli atteggiamenti ostili verso l’islam cominciano a manifestarsi già nel corso degli anni Novanta, con l’aumentare degli immigrati di religione islamica. A seguito degli attentati dell’11 settembre l’islamofobia si diffonde ancora di più.
Su questa scia, nasce una letteratura (tra saggistica e giornalismo) destinata al grande pubblico che si contraddistingue per la rappresentazione di questa presenza come problema sociale, affermando che l’islam è assolutamente incompatibile con la democrazia e la libertà (Barbagli & Schmoll, 2008).
E adesso?
Ciò a cui si assiste oggi è la fine di un’epoca. Per vent’anni, in Occidente, sono arrivate tante immagini e notizie dall’Afghanistan. Ma è solo dallo scorso mese che queste non si perdono nella marea di notizie da cui siamo sommersi ogni giorno.
Fra poco tempo, molti avranno dimenticato. Fra qualche mese chi non ha potuto prendere un aereo da Kabul per “diritto” o per “fortuna”, arriverà qui e andrà avanti. E si parla di chi riuscirà a giungere in Europa senza essere ripetutamente respinto o bloccato da muri o filo spinato. Per la maggior parte saranno necessari anni per riuscire a fuggire e posare il piede su un suolo che sia amico, o forse meglio su un suolo dove trovare un volto amico e una mano tesa. Forse è questa l’unica cosa che si può dedurre, o indovinare, circa le conseguenze della disfatta in Afghanistan.
Il 30 agosto la Polonia ha dichiarato lo “stato di emergenza” al confine bielorusso, dove sono rimasti bloccati 32 afghani.
Disfatta è un termine sbagliato, abbandono è un termine giusto? Lasciamo a chi legge la scelta del termine più appropriato, o meglio il tempo di riflettere. Perché un’altra cosa certa è che, per i prossimi anni, questi fatti incideranno pesantemente sugli equilibri del mondo.
Immagine in evidenza: “Quadri color luce – 11 settembre 2001” di Fiorella Nuti
Fonti:
Alfieri, A. (2014). Televisione e web davanti all’11 settembre. Intexto, (31), 68–78.
Amico, C., & Villano, P. (2007). L’ombra delle Torri. Una ricerca sulla rappresentazione mediatica dell’arabo dopo l’11 settembre 2001. Psicologia contemporanea, 54–61.
Barbagli, M., & Schmoll, C. (2008). Sarà religiosa la seconda generazione? Una ricerca esplorativa sulle pratiche religiose dei figli di immigrati.
De Angelis, E. (2007). Guerra e mass media. Roma: Carocci.
Gambino, A. (2005). Esiste davvero il terrorismo?. Roma: Fazi editore.
Melotti, U. (2004). Migrazioni internazionali. Globalizzazione e culture politiche. Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano: Bruno Mondadori.
Van Dijk, T. (2006). Discourse and manipulation. Discourse & Society, 17(3), 359–383.