di Federica Zanantonio Martin
Esiste quella famosa formula “Italiani brava gente” che sappiamo piace un po’ a tutti. Una sorta di sogno, forse catartico, in cui noi, popolo italiano, ci pensiamo e auto-rappresentiamo al di sopra degli altri popoli: per umanità, per accoglienza, per tolleranza, per bontà.
Anche perché si sa: italians do it better.
Questa sorta di mito di autocelebrazione e autoassoluzione racchiude in sé dapprima, l’immagine edulcorata dei soldati italiani in guerra capaci di mostrare un’umanità incredibile nei confronti dei civili durante le guerre di occupazioni, e in seguito, è diventato un vero e proprio mito nazionale a indicare una presunta indole italiana quasi fosse “naturale”, ossia quella di essere un popolo accogliente, tollerante e decisamente non razzista.
Se si ripensa poi alla cinematografia, questa autocelebrazione degli italiani in chiave umanitarista è stata riproposta più e più volte sugli schermi da noti cineasti del nostro paese.
Due esempi su tutti, Giuseppe De Santis che nel 1964 decise di scegliere questa formula come titolo di un film dedicato ad una spedizione italiana in terra di Russia, dove un soldato russo consegnandosi in ostaggio ai militari italiani e bisognoso di cure dichiara “italiani brava gente, loro mi cureranno”. E lo stesso messaggio viene narrato in Mediterraneo, il film di Salvatores dove dei soldati italiani, sbarcati nel 1941 su un’isola dell’Egeo, stringono amicizia con i greci, abbandonando così le armi.
Si tratta tuttavia di vere e proprie mistificazioni, di oleografie che riproducono un cliché elaborato a fine Ottocento e ripreso e sistematizzato nell’Italia fascista, quando celebrando le imprese coloniali italiane, ci si auto-narrava attraverso la propaganda del colonialismo virtuoso, quello del “abbiamo costruito ponti e strade”, operando così un taglia e cuci propagandistico che è arrivato fino ai giorni nostri.
Riproponendo quel dolce stile revisionista storico che dimentica volutamente i danni commessi da quei “bravi” italiani in terra d’Africa, si omettono così crimini, massacri, segregazione razziale e depauperamento, oltre che vessazioni, inflitte in maniera sistematica nei confronti delle popolazioni locali. Senza contare poi tutto ciò che è stato fatto, invece, in terra italica durante il ventennio e non solo.
Tuttavia, questa memoria collettiva falsificata ha trovato terreno fertile anche e soprattutto nell’Italia post-fascista, quella che in cerca di una complicata riappacificazione nazionale, si ritrovò ad autoassolversi dai propri reati di guerra e coloniali.
Nelle scuole, nei programmi di storia poca attenzione viene infatti dedicata a dei passaggi politici cruciali quali l’Amnistia Togliatti del 1946 che con decreto riportò in libertà, de facto, circa 10.000 fascisti che si trovavano in carcere a scontare pene per reati comuni, politici e militari condannati a un massimo di 5 anni.
Anche se nelle intenzioni del legislatore, reati gravi e gravissimi non erano inclusi nel provvedimento, a questi venne comunque estesa un’amnistia in maniera indiscriminata, decisa anche dalla magistratura italiana che a sua volta non era stata sottoposta a procedimenti di epurazione di quadri e burocrati fascisti presenti al suo interno.
L’amnistia del 1946 rappresentò la forma politica e giuridica della defascistizzazione mancata.
Una scelta politica che con un colpo di spugna portò il paese a saltare volutamente un passo fondamentale di riflessione circa colpe, reati e abusi.
Una scelta deliberatamente politica che ricade ancora oggi sulla nostra società, un fantasma che mistifica e banalizza azioni squadriste, polarizzando il paese tra chi condanna senza se e senza ma e chi invece non potrà mai farlo, poiché figlio culturale e morale della nostra società postfascista ma non defascistizzata.
E così, quella riappacificazione nazionale tanto voluta nel secondo dopoguerra, non arrivò mai. Anzi.
L’amnistia cosiddetta Togliatti sarà infatti seguita da altri provvedimenti, che amplieranno la casistica dei crimini condonabili. Nel 1948 vennero estinti i giudizi ancora pendenti dopo l’amnistia del 1946; nel 1953 un’altra amnistia, accompagnata dall’indulto, è applicata a tutti i reati politici commessi entro il giugno 1948. Nel giugno del 1966 vi fu un’ulteriore amnistia.
In libertà tornarono i gerarchi fascisti più fedeli a Mussolini. Tra loro Ricci e Borghese, che avevano combattuto nelle fila della Repubblica di Salò accanto all’esercito nazista e Grandi e Federzoni, membri del Gran Consiglio del Fascismo. Ma l’amnistia riguardò anche centinaia e centinaia di funzionari minori del regime, agenti della polizia segreta, informatori e capi del partito locale che ripresero a vivere e tornarono a occupare ruoli di rilievo in quell’Italia che sognava la ricostruzione.
E così, “italiani brava gente”.
Fonti
Del Boca, A. (2011). Italiani, brava gente?. Neri Pozza Editore.
Immagine in evidenza: Enrico De Seta, Serie di cartoline umoristiche disegnate ad uso delle truppe italiane dell’Africa Orientale, Milano, Edizioni d’Arte Boeri, 1935-36