di Andrea Metta 

24,9 milioni sono le persone che nel 2019 sono state costrette alla fuga da casa propria per eventi legati a fattori climatici.

Centoquaranta i Paesi coinvolti. Sono numeri che fanno spaventare e sono destinati ad aumentare. Se non si mettono in atto azioni volte a contrastare questo disastro, entro il 2050 saranno 200 milioni coloro che avranno bisogno di assistenza sanitaria. 

Nel primo volume del Sesto Rapporto dell’IPCC, la più aggiornata ricerca scientifica sui cambiamenti climatici, uno dei punti più importanti riguarda gli effetti del continuo riscaldamento globale. L’aumentare delle temperature sulla Terra comporta rischi e conseguenze che si possono vedere chiaramente.

Nelle città gli eventi legati al clima cresceranno sempre di più, «le ondate di calore aumenteranno nella durata e nella temperatura, le inondazioni dovute all’innalzamento del mare comprometterà la vita delle grandi e piccole zone urbane costiere e le tempeste, sempre più frequenti, potranno causare danni molti gravi»¹.

Queste parole sono state scritte a inizio anno e proprio in questi giorni, purtroppo, qui in Italia stiamo toccando con mano cosa significano.

Siracusa è sommersa dall’acqua con danni non ancora quantificabili. C’è gente che potrebbe perdere tutto, a cominciare dai commercianti, rimasti senza negozio, fino ad arrivare a chi rischia di non avere più una casa. In situazioni simili è difficile pensare a come ripartire una volta che l’emergenza rientra, a come ricostruire quanto andato perso.

L’Italia, per fortuna, non è tra i Paesi cosiddetti vulnerabili. I popoli che lo sono, invece, rischiano ancora di più. Questi eventi sono imprevedibili così come i loro effetti.

Le comunità più povere, più a rischio, subiscono maggiormente i danni causati da tempeste, cicloni, incendi o frane, con il risultato di non avere più possibilità di coltivare, allevare o, addirittura, rimanere senza approvvigionamento idrico. Gli ecosistemi necessari al sostentamento umano crollano di fronte a tali eventi, con conseguenze maggiori per donne, bambini e persone con difficoltà. 

Se ciò, inoltre, succede in posti già difficili per altri fattori, che spesso raccontiamo qui, la combo diventa devastante. 

Come racconta Andrew Harper, consulente speciale dell’UNHCR, il cambiamento climatico di per sé non porta a conflitti ma aumenta l’insicurezza alimentare, che, a sua volta, spinge a contrasti tra persone, alimentando attriti già esistenti e rincarando la dose di questioni storiche come lotte religiose, guerre e conflitti socio-politici.

Tutto questo ha come effetto, naturale, evidente, quello di spingere le persone ad andarsene, ad abbandonare letteralmente i propri luoghi per cercare posti più sicuri a livello climatico, senza rischiare di non avere più un tetto sopra la testa.

La maggior parte di queste persone si sposta all’interno del proprio Paese, ma un dato da tenere in grande considerazione è il non rientro alla propria abitazione. Chi fugge per motivi ambientali non torna quasi mai indietro, in quanto le condizioni dell’ecosistema non rendono più il proprio luogo ospitale.

A differenza di chi parte per cause diverse, come i conflitti sociali, i migranti ambientali raramente sperano di poter tornare alla vita di prima. Per questo aumenta sempre di più, nel dibattito pubblico, il termine “rifugiato climatico“.

Questo termine compare per la prima volta a livello ufficiale nel 1985 in un rapporto dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), intitolato appunto “Environmental refugees”. 

«I rifugiati ambientali sono quelle persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale […] a causa di un forte dissesto ambientale che ne ha compromesso l’esistenza e/o ha gravemente compromesso la qualità della vita.»²

Come si nota, siamo consapevoli da decenni dell’aumento del numero di migranti climatici che vanno ad aggiungersi alla già consistente mole di persone costrette a spostarsi.

Nonostante questo, rimane un problema che continua ad essere rimandato, tanto che giuridicamente non esiste il migrante ambientale. Non esiste una protezione per coloro che scappano per cause climatiche, sebbene la Convenzione sui rifugiati del 1951 possa applicarsi in casi in cui il motivo climatico si aggiunge ad altre cause come conflitti, persecuzioni e violenze. 

C’è un caso, però, che, nel Gennaio 2020, potrebbe aver creato un precedente molto importante.

Ioane Teitiota, cittadino della Repubblica di Kiribati, un’isola in Oceania, è stato costretto a migrare per l’innalzamento del livello del mare. Il Comitato delle Nazioni Unite è stato chiamato a pronunciarsi. Esso ha stabilito che gli Stati non possono rimpatriare una persona che deve affrontare condizioni climatiche che ledono il diritto alla vita

Come dichiarato da Andrew Harper, questa decisione è molto interessante perché rileva che anche coloro che non sono rifugiati hanno il diritto di non essere rimpatriati se questo potrebbe comportare un rischio per il diritto alla vita.

Nel caso specifico, Ioane Tetiota non ha ricevuto la protezione internazionale in quanto a Kiribati erano state prese misure sufficienti di protezione. Ciononostante, il caso apre ad una grande possibilità che si potrà ragionare su un allargamento delle esigenze di protezione, in aggiunta a misure preventive e riparative sufficienti alla tutela delle popolazioni. 

Il G20 di questi giorni, che si è tenuto a Roma, si spera, infatti, che non sia l’ennesima occasione sprecata, in cui “i grandi della Terra” discutono su come migliorare insieme le condizioni del pianeta.

A seguito di una pandemia di tale portata, in cui le disuguaglianze si sono allargate ancora di più e in cui l’approvvigionamento delle materie prime si rende più difficile, lasciare indietro coloro che hanno meno risorse rispetto ad altri per potersi rialzare e che spesso sono sfruttati dal punto di vista ambientale, sarebbe un boomerang ecologico, economico e sociale che colpirebbe nel cuore anche i Paesi più sviluppati, i quali di questo sfruttamento potrebbero non giovarne più.

¹  Legambiente, a cura di F. Brandoni, I migranti ambientali. L’altra faccia della crisi climatica, Dossier 2021

² El-Hinnawi, E., Environmental refugees, 1985, p. 4.

Fonti

https://www.unhcr.org/it/notizie-storie/storie/il-cambiamento-climatico-e-la-crisi-che-caratterizza-il-nostro-tempo-e-colpisce-in-particolare-le-persone-costrette-alla-fuga/

https://greenreport.it/news/clima/emission-gap-report-2021-il-riscaldamento-e-acceso-andiamo-verso-un-cambiamento-climatico-catastrofico-video/

https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/09/I-migranti-ambientali_dossier_2021.pdf

https://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/dossierprofughi_ambientali.pdf

Immagine in evidenza: Aumento previsto per il 2050 dei migranti climatici nelle macroaree dell’Africa Subsahariana, dell’Asia Meridionale e dell’America Latina.