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Report di Murray Biagini Kemp (link all’articolo originale, uscito per Arts of the Working Class il 23 dicembre 2021)
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Traduzione a cura di Adna Čamdžić
La natura transitoria degli squat appare evidente non appena arrivati. Mucchi di immondizia sparpagliati ovunque, zanzare e mosche si contendono pelli devastate dalla scabbia e rifiuti scartati a volontà. Gli uomini indossano un mix di vestiti afghani tradizionali e abiti di seconda mano, scambiando i primi con i secondi quando iniziano ad usurarsi. È ora di pranzo in uno dei campi informali per profughi in Serbia, nascosto nella foresta a pochi chilometri dal confine con la Croazia. A parte le tende ben tenute in cui dormire, o l’area adibita a preghiera rivolta a est verso la Mecca, il posto è un totale disastro. Ripulire significherebbe ammettere la sconfitta, per gli uomini significherebbe rassegnarsi a restare nel campo più a lungo di quei pochi giorni in cui sperano e pregano di rimanere. Eppure, molti vi restano per molto più tempo. Un ragazzo giovane, Mirhab*, 19 anni, è appena tornato da un’assenza di tre mesi dopo essere stato investito da un camion, che lo ha lasciato in coma. Riceve un’accoglienza da eroe quando torna dall’ospedale, sorride e le lunghe maniche nascondono la pelle strappata dalle braccia e dalle gambe. Spera che questa sia solo una piccola battuta di arresto e che non farà parte di quel gruppo che pare bloccato da sempre nel campo. Poliziotti armati, droni, cani, ogni strumento che fa parte del vasto arsenale del regime di confine dell’UE si frappone fra loro e l’obiettivo. Il residente più longevo con cui abbiamo parlato si trovava lì da oltre quattro anni.
Nel maggio 2021, dopo il sanguinoso crollo della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, le fragili promesse di sicurezza da parte dell’Unione Europea sono svanite insieme al “Joint Way Forward”, l’accordo volto a facilitare il rimpatrio dei rifugiati afghani. Per pochi eletti, che si trovavano all’interno del Paese e stipati a bordo dei voli di evacuazione dall’aeroporto di Kabul, questo ha significato la salvezza. Ma per coloro che erano già partiti, a metà strada per l’Europa nel flusso umano delle rotte migratorie internazionali, la salvezza era ancora lontana. Nonostante le rassicurazioni della Commissaria europea per gli affari interni, Ylva Johansson, secondo cui l’Europa aveva il “dovere morale” di aiutare i rifugiati afghani, il consenso politico della “Fortezza Europa” rimane, tenendoli il più lontano possibile dai confini dell’UE. Con la maggior parte dei vicini afghani dell’Asia centrale che hanno i propri problemi socioeconomici e che continuano a rifiutare gli oneri imposti loro dall’UE, non resta che il lungo viaggio via terra verso l’Europa come unica possibilità realistica di evasione per i milioni di afghani in fuga da guerra e persecuzioni. La miriade di percorsi che compongono questa via è ingannevole. Uno di questi percorsi, comunemente chiamato “Rotta dei Balcani occidentali”, consiste nel viaggio via terra attraverso la Grecia, la Macedonia, la Serbia, fino al confine dell’UE in Croazia, attraverso la Slovenia, fino alla relativa sicurezza dell’Italia o dell’Austria. Nei primi anni in cui si è aperto questo percorso, gli attraversamenti erano relativamente facili. Ma nel 2016, tra il tumulto mediatico per la cosiddetta “crisi dei migranti” e l’ascesa dei partiti populisti di estrema destra, la diffusa chiusura delle frontiere e il frettoloso accordo di 6 miliardi di euro tra UE e Turchia hanno portato l’allora presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, a proclamare che “i flussi irregolari di migranti lungo la rotta dei Balcani occidentali sono giunti al termine”. Secondo i politici occidentali, la rotta balcanica era definitivamente chiusa. Eppure, migliaia di persone ci provano ancora oggi, attraverso percorsi sempre più difficili e meno battuti. Uno di questi percorsi passa attraverso una cittadina di medie dimensioni al confine serbo-croato, una cittadina chiamata Šid.
Sono stato a Šid (pronunciato Scid) dal mese di settembre a novembre 2021 come volontario per No Name Kitchen, una ONG a struttura orizzontale che fornisce aiuto agli sfollati nei Balcani. Con sede in uno spazio situato nel centro della città, i volontari provengono da ogni parte del mondo per supportare con le forniture quotidiane di cibo, docce e supporto medico per le centinaia di persone accampate negli insediamenti informali sparpagliati nelle vicinanze. Sebbene stimolante e potente, questo senso di solidarietà internazionale si scontra con una dura resistenza. Dal momento del loro arrivo, i volontari vivono sotto la prepotente minacciosa presenza delle forze di polizia serbe. Inseguendoli nel loro furgone, in agguato nei luoghi di distribuzione, la minaccia è costante. Sebbene la fornitura di aiuti non sia illegale, la vicinanza al confine e il prevalente sentimento anti-immigratorio danno alle autorità dall’uniforme blu scuro carta bianca nella criminalizzazione delle azioni come meglio credono. In passato, i volontari sono stati perseguiti sotto false accuse, espulsi dal paese, persino aggrediti fisicamente. Le intimidazioni sono all’ordine del giorno. “Sentivamo che non stavamo facendo nulla di male, ma ci trattavano come una minaccia”, racconta Mariona, una delle volontarie. È stata arrestata insieme ad altri due volontari durante la mia permanenza mentre valutavano i report su un afflusso massiccio di rifugiati infreddoliti, e disperati a Majdan, una piccola cittadina di confine nel cuore agricolo della Serbia settentrionale. Dopo essere stati detenuti, perquisiti, e interrogati dalle unità speciali di polizia, i loro documenti di identità e i loro taccuini sono stati ispezionati e fotografati prima di essere cacciati dalla città e gli è stato detto di non tornare mai più. “Mi ha fatto pensare a come devono sentirsi le persone trattate in questo modo, dal momento in cui lasciano i loro paesi e iniziano la propria vita in movimento”.
Parallelamente allo Stato, gran parte del lavoro sporco a Šid viene svolto da una rete meno visibile, che opera nell’ombra, di organizzazioni di estrema destra. Unità di paramilitari fascisti appartenenti al movimento ultranazionalista dei Chetnik fanno da guardia alle aree attorno ai campi ufficiali, impedendo alle persone di allontanarsi e impedendo l’accesso alle organizzazioni umanitarie. Uno dei gruppi chiamato Omladina Šida (“I Giovani di Šid”) pubblicano dichiarazioni online e organizzano proteste regolari di propaganda contro la popolazione di rifugiati della città. Una delle dichiarazioni pubblicata su Facebook ammoniva che “né ai migranti né ai volontari dovrebbe essere consentito camminare per le strade”, e che la popolazione locale avrebbe dovuto chiamare la polizia nel caso avesse avvistato qualcuno. Un’altra, rilasciata dopo l’arrivo di otto pullman carichi di persone presso i campi ufficiali di Šid a seguito degli sfratti nel nord della Serbia, avvertiva che le persone non avevano “nulla di meglio da fare che espellere i migranti dalle proprie case e giardini” e che avrebbero fatto meglio a “resistere che esistere”. Un’atmosfera di paura circonda la città. È comune trovare graffiti a sfondo nazionalista, svastiche e teschi pitturati con vernice-spray sui muri diroccati accanto alle tradizionali croci serbe. Raramente accade che i rifugiati entrino nel campo da soli, preferiscono la sicurezza garantita dai viaggi in gruppo.
Accanto ai compiti generali di preparazione delle distribuzioni, il mio ruolo all’interno di No Name Kitchen era quello di Border Violence Reporter (“Reporter della Violenza di Confine”). Nell’ambito della più ampia Rete di Border Violence Monitoring (“Monitoraggio della Violenza di Confine”), conducevo interviste, scattavo fotografie, e compilavo report su episodi di violenza da parte della polizia. C’era molto da coprire. Ogni notte, centinaia di persone tentano il “game”, una parola in codice ingannevolmente allegra creata dai rifugiati per descrivere i tentativi spesso strazianti di attraversare il confine. Coloro che prendono parte al gioco sono conosciuti come “passeggeri”, e sia che si intrufolino in camion, taxi, treni, o che decidano di camminare nel caso in cui non abbiano soldi per pagare i contrabbandieri, il game rappresenta la loro unica via per la sicurezza e la libertà. Ma le pianure idilliache e le foreste intorno a Šid covano una brutalità nascosta. Il terreno pianeggiante e i campi aperti rendono facile individuare gruppi di passeggeri in movimento. I poliziotti e i paramilitari lavorano in tandem, pattugliando le aree in cerca delle loro prede. Nelle foreste e nei campi lontano dalla città lanciano i loro attacchi. Le tende vengono tagliate, gli effetti personali distrutti, i manganelli regnano sui corpi indifesi. Il fumo riempie regolarmente l’aria laddove gli accampamenti informali sono stati cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Pistole puntate in faccia, proiettili sparati attraverso serbatoi d’acqua e in aria. I cani strappano pezzi di arti malnutriti. Dall’altra parte del confine, la minaccia continua anche in territorio UE inoltrato. Le forze di polizia speciali croate pattugliano le aree in interne in profondità, prelevando passeggeri e scaricandoli illegalmente oltre il confine con la Serbia con quelli che sono noti come respingimenti. Dopo ogni attacco, una volta che gli uomini tornavano, facevamo del nostro meglio per aiutare a raccogliere i cocci, medicare le ferite, scrivere report e rimpiazzare gli effetti personali che erano stati distrutti. Le storie dipingevano tutte un quadro simile e agghiacciante, diverso solo per i livelli di brutalità esercitati in esse. “Ti hanno picchiato. Ti distruggono i telefoni. Prendono i tuoi soldi, i tuoi vestiti, le tue borse”, ci ha detto Javad, 22 anni. “Ti lasciano a congelare. Ti puniscono in diversi modi”.
Lontano dal comfort relativo dei tre campi gestiti dal governo, che sebbene angusti e sotto finanziati, forniscono un tetto, assistenza sanitaria e tre pasti giornalieri a chiunque sia disposto a registrarsi e dare una mano con le pulizie, per avere maggiori probabilità di superare il game è necessario trasferirsi negli insediamenti informali. Qui i passeggeri dormono in tende o in edifici abbandonati a poche centinaia di metri dal confine. La rete di canali migratori incanala le persone in base alla loro nazionalità, a seconda delle connessioni personali e dell’etnia di coloro che sono a comando. A Šid questo significa principalmente afghani. Di solito vengono mandati avanti gli uomini, che affrontano il pericoloso viaggio da soli nella speranza di raggiungere la propria destinazione e fare domanda per il visto di ricongiungimento per la propria famiglia. Il viaggio non è sicuro per donne sole. Solamente una donna era stata avvistata dai volontari che ho incontrato e il suo breve soggiorno era presto diventato materia di leggenda. L’atmosfera quando arrivavamo ogni giorno agli squat era di accoglienza e di felicità. Ma gli orrori vissuti nei propri luoghi di origine erano sempre materia di conversazione. Ferite di guerra e tagli infetti inframmezzati da file ordinate di ferite da coltello, cicatrici autolesionistiche che tradiscono una realtà alternativa. Parlare della guerra portava uno stato d’animo solenne. Un giovane, Mohammed, 19 anni, aveva perso un fratello nell’attacco terroristico all’aeroporto di Kabul quando eravamo lì. Dopo averlo saputo si è conficcato un coltello nel braccio, facendolo entrare così in profondità da rompere ogni strato di pelle. Quando abbiamo fasciato la ferita il giorno dopo, lui ha riso, imitando sé stesso mentre si pugnala. Ha scrollato le spalle rassegnato, come per dire, questo è solo il modo in cui vanno le cose. Durante il mio soggiorno Mohammed è lentamente peggiorato, ogni tentativo fallito di attraversare il confine, ogni respingimento e ogni percossa lo hanno portato a rinchiudersi sempre più in sé stesso.
Per gli altri uomini forti ma pur sempre feriti degli squat, le cicatrici del passato li consumavano dall’interno. Bloccati in una pentola a pressione con la polizia di frontiera che si insinua da ogni parte, i ricordi di casa assumono nuove dimensioni traumatiche. Un giovane, Abdul, era conosciuto come il più grande ballerino degli squat. Sorridendo sempre, da solo o con un partner volenteroso ballava per ore, girandosi e contorcendosi magnificamente al suono della musica pashtu che pompava da una vecchia cassa malconcia. Un giorno, dopo qualche tempo che ci conoscevamo, mi fece cenno di guardare il suo telefono. Sfogliando gli spensierati TikTok – un sostituto comune della classica conversazione che permetteva di superare le difficoltà linguistiche – si è fermato su uno di questi. Diverso dagli altri, mostrava corpi avvolti nelle lenzuola e caricati su un 4×4 nel polveroso deserto dell’Afghanistan. Un uomo entrava nell’inquadratura, uno sguardo stordito e distante sul suo volto. “Questo è mio fratello”, osservò Abdul, fissando intensamente lo schermo. Ho notato qualcosa di strano rispetto al braccio del fratello. Guardandolo più da vicino, mi sono reso contro che era stato reciso appena sotto la spalla. Lo teneva, inzuppato di sangue, in posizione con le braccia incrociate. Abdul guardava in silenzio. Dopo questo episodio non ci furono più balli per tutto il resto della giornata, si ritirò tra i cespugli, senza più sorridere. Uno dei suoi amici ci disse: “per un’ora al giorno è felice, il resto, così”.
Le buone notizie arrivavano rare ma abbondanti a Šid. Dopo innumerevoli tentativi, i passeggeri più fortunati e determinati cominciarono a sfuggire alla cattura e attraversare i confini. Durante le videochiamate agli amici che dovevano ancora tentare, i loro volti mostravano pura euforia, ottimismo per l’opportunità di una nuova vita che era stato il loro desiderio principale per anni. La maggior parte di loro era andata in Belgio, Germania o Francia. Ho chiesto a un gruppo se qualcuno di loro avesse intenzione di andare nel Regno Unito. “No”, hanno riso all’unisono, spiegando le difficoltà nell’attraversare la Manica. “Questo confine, grande problema”. Dopo così tanto tempo trascorso fuori dai cancelli dell’UE, il sollievo dopo aver raggiunto un porto sicuro e la fine del loro lungo e straziante viaggio era travolgente. Eppure, per alcuni, Šid rimane la destinazione finale. Un pomeriggio, bloccato in un ingorgo sulla via di ritorno da Novi Sad, ho ricevuto la notizia che uno degli uomini degli squat, il ventiduenne Khalid, era stato investito da un treno. Esausto e senza un posto comodo dove dormire, si era sdraiato sui binari prima di tentare di intrufolarsi in una fila di camion diretti fuori città. Dopo aver ricevuto un messaggio di soccorso dai suoi amici, alcuni degli altri volontari sono corsi ad aiutarli. Hanno trovato la polizia serba in agguato lungo la strada che porta ai binari, più preoccupata di catturare gli altri uomini che di aiutare. Gli ufficiali hanno chiesto di andare per primi. Quando hanno trovato Khalid, spostato al lato dei binari e coperto con una giacca intrisa di sangue, già non respirava più. “Questo migrante è kaput”, hanno detto gli agenti, prendendo a calci il suo corpo senza vita come un sacco di plastica scartato. Affrontando l’ostilità fino ai suoi ultimi respiri, si aggiunge agli innumerevoli sfollati morti prima di lui prima di raggiungere la destinazione promessa. Khalid era sopravvissuto alle zone di guerra in Afghanistan, ma non poteva sopravvivere a Šid.
Šid è lontano dall’essere un’anomalia. La piccola istantanea delineata qui sopra, sebbene cupa, racconta una storia familiare recitata quotidianamente nelle migliaia di altri punti focali di confine sparsi in tutto il mondo.
Poche settimane dopo essere tornato a casa a Glasgow, ho visto al telegiornale che trenta persone erano morte nel tentativo di attraversare la Manica, a pochi chilometri dal territorio britannico. Lontano dalle distese sconosciute dei Balcani, queste morti si verificano proprio nel cuore dell’Europa benestante. Il regime di confine internazionale, progettato per mantenere le persone al loro posto e i profitti in movimento, sta massacrando le persone proprio alle porte di casa. La colpa può essere attribuita ai contrabbandieri, ma sono semplicemente un sintomo del più ampio marciume che si è diffuso in tutto il mondo, un marciume che sta lentamente erodendo la nostra umanità con l’ascesa strisciante dell’estrema destra, la militarizzazione dei confini e la criminalizzazione degli aiuti umanitari. In nome del Regno Unito, dell’UE, e delle altre istituzioni che così tanti liberali e persone di sinistra difendono, questi bastioni mostrano il lato oscuro del relativo comfort che rappresentano. Dopo essere stato morso da un cane della polizia ed aver perso la capacità di camminare, un giovane, un soldato dell’esercito afghano che era fuggito dopo essere stato abbandonato dalle forze della coalizione, mi ha rivelato tutta la sua angoscia per la crudezza di tutto questo. “Voglio andare in Europa. Voglio studiare. Voglio cantare”. Per altri afghani come lui, altri siriani, e le molte altre vittime di guerra, del cambiamento climatico e della rovina economica che sono sparse in tutto il mondo, i viaggi lungo rotte come quella attraverso Šid non accennano a finire presto. Le persone che ho incontrato lì sono tra le più stimolanti che abbia mai incontrato, molto più forti e piene di risorse di qualsiasi politico di destra, qualsiasi CEO, o leader d’affari che declami i presunti benefici di una politica anti-migratoria. Nonostante le ampie difese che la circondano, nonostante gli Stati che si sono uniti contro le persone in movimento, l’Europa offre ancora un rifugio sicuro per loro e per le loro famiglie. Ma prima, devono arrivarci.
* I nomi sono stati cambiati per proteggere le identità.
Murray Biagini Kemp è un border violence reporter.
Per maggiori informazioni su No Name Kitchen, vai su https://www.nonamekitchen.org/
Per i border violence reports, vai su https://www.borderviolence.eu/
Image caption
- Un giovane uomo con in mano un proiettile che è stato sparato dalla polizia serba nel container che lui e i suoi amici utilizzavano come riserva d’acqua.
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Tutte le immagini sono tratte dal report originale.