L’articolo che leggerete nasce da una conversazione avvenuta verso la fine del mese di febbraio tra l’autrice e Dragica Galešić, volontaria del Collettivo Azione Pace (CAP) dal gennaio 2002. Il CAP ha sede a Torino ed è attivo dal 1994 in azioni di sostegno a bambini provenienti dalla ex Jugoslavia e affetti da gravi patologie, che nel corso degli anni sono stati ospitati all’interno di strutture ospedaliere italiane.
“A terra hanno lasciato una vita intera; dietro si sono potuti portare solo lo stretto necessario, giusto quel che sono riusciti a far stare dentro una valigia”, è così che Gioele Urso, nel suo servizio realizzato per TorinoToday, introduce l’arrivo dei bimbi ucraini che nel pomeriggio del 5 marzo si sono imbarcati dalla Romania su un volo privato organizzato dalla Regione Piemonte con destinazione Torino.
In tutto tredici bambini che, con le proprie famiglie, hanno percorso circa 2.000 chilometri per poter proseguire il proprio percorso di cura, interrotto a causa della guerra e dei bombardamenti. Il trasferimento è stato molto delicato, soprattutto perché alcuni dei bambini si trovavano in situazioni cliniche gravi al momento della partenza. Si parla di giovani pazienti oncologici che, dopo giorni di attesa e una serie di difficoltà legate all’organizzazione della partenza, sono riusciti finalmente a raggiungere l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino.
Il mio pensiero va immediatamente agli anni ’90, al Comitato di Accoglienza per i profughi della ex Jugoslavia, penso ancora una volta a Luisa Mondo, epidemiologa e volontaria nell’accoglienza dei migranti di ieri e oggi, penso a Kemo, affetto da una grave cardiopatia, che da Kladanj era arrivato a Torino per un trapianto di cuore, penso alla leggerezza con cui stava al mondo, lo rivedo con il mio sguardo di ragazzina, sorride e la terra trema: “e si mossero i rami e si mossero le foglie e si mossero i fili d’erba come se tutte le cose che non hanno voce mi volessero parlare” (Rodoreda, 2020).
Tutto intorno è primavera, ma c’è un’angoscia insopportabile nascosta dietro ai colori accesi dei tulipani – una crudeltà propria agli esseri umani e alla vita, mossa dall’impercettibile rimbombo dei battiti cardiaci. “E il cuore è questa cosa. Mi posò la mano sul petto dopo essersi spostato i vestiti. Non si ferma mai: lavora sempre. È lui che ti fa vivere. A volte si stanca e va più piano, come se fosse una persona, e a volte si ferma con un sobbalzo e a volte si scioglie. […] un giorno lo capirai, il cuore è l’unico a vivere, tutto ciò che c’è attorno non vale niente. Il mio ha vissuto… Sapessi quanto ha vissuto, dalla primavera alle foglie accese, e dalle foglie accese alla primavera…” (Rodoreda, 2020)
Questa è una storia in cui morte e vita si intrecciano, ed è sempre questione di pochi attimi, di coincidenze fortunate o di tragiche disgrazie, che bussano alla porta nel cuore della notte. Ricordo un sogno ricorrente da piccina, le luci sono spente, la porta è serrata, chiudo gli occhi ed eccole, arrivano insieme tutte e tre: “la prima filava il filo della vita; la seconda dispensava i destini, assegnandone uno a ogni individuo stabilendone anche la durata; la terza, l’inesorabile, tagliava il filo della vita al momento stabilito” (tratto da Wikipedia, alla voce “Parche”).
Delle tre Parche, le arbitre dei destini umani, è Cloto quella che ho sempre temuto più delle altre, Cloto la tessitrice che concedeva la vita solo per poterla togliere: aveva il potere di decidere quando gli dèi o i mortali dovessero essere salvati o messi a morte. E presto il filo è spezzato. Il lettore mi scuserà il pessimismo, ma il dolore in questo momento è forte, spazza tutto con violenza, scuote il cuore, ma forse prepara spazio per qualcosa di migliore?
È ancora inverno quando riesco ad organizzare una chiamata con Dragica. Fino ad ora ci siamo sentite solo telefonicamente, un incontro nato da altri incontri, in fondo nella vita i nostri fili si intrecciano così tanto che mi chiedo: come faranno le Parche a trovare il filo giusto e non cadere in errore?
Dragica fa parte di un’associazione che dai tempi della guerra in ex Jugoslavia si è mobilitata a tutela della vita umana: Il Collettivo Azione Pace. I volontari iniziano ad operare dapprima nei campi profughi in Croazia – nel campo di Učka dove vengono trasportati i primi aiuti umanitari, e poi a Rijeka e nei campi profughi ROS e Lenac di Fužine, organizzando campi di animazione per bambini e interventi di manutenzione per rendere più ospitali le strutture di accoglienza. Dragica entra in contatto con il CAP nel 2001, diventando ufficialmente socia nel gennaio del 2002.
Il progetto prende presto una piega molto particolare, che andrà a caratterizzare gli interventi del CAP anche negli anni successivi: ovvero l’assistenza a bambini affetti da gravi patologie che vengono accompagnati in Italia per ricevere le adeguate cure. Il progetto, a cui viene dato il nome “Biće Bolje” (letteralmente “andrà tutto bene” in serbo-croato) è portatore di un barlume di speranza e fiducia nel futuro. Negli anni il CAP organizza, infatti, trasporti e ospitalità per i bambini e le loro famiglie nel corso di tutta la loro permanenza in Italia, oltre ad offrire servizi di mediazione culturale e linguistica, ma anche semplici attività per bambini a seconda delle loro passioni e dei loro desideri, e tutt’oggi prosegue la propria attività.
Quelli ospitati dal CAP sono principalmente bambini con patologie nefrologiche, che necessitano trapianti di rene o fegato e cure urgenti. Il primo intervento avviene invece nel 1996, si chiama Neven, è un bambino bosniaco di nove anni che a seguito di un incidente aveva necessità di interventi ortopedici complessi di ricostruzione, fu ricoverato prima all’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino e poi all’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova. Le cure ebbero un risvolto positivo, ora Neven ha un lavoro e una famiglia con tre bellissime bambine, mi racconta Dragica.
Non è stato così per tutti. D’un tratto il volto di Dragica si incupisce, e laddove prima leggevo speranza, ecco una nube nera, di nuovo quell’angoscia, il mistero incomprensibile della vita e della morte, del dono e della perdita. E mentre scrivo ora, ripercorro le immagini che i volontari hanno pubblicato sulla pagina Facebook: “Oggi avremmo voluto festeggiare i 20 anni di Milica ma il destino non ce lo ha permesso” – datato 9 luglio 2021.
Rivedo Cloto, bussa alla mia porta insieme alle sorelle, il suo sorriso è crudele, come il sole che finge la propria innocenza. Sento il bruciore delle ustioni dello scorso martedì. Mi guardo allo specchio e rivedo sul mio volto piccoli segni sparsi qui e lì, da sempre fingo che siano lentiggini, ma so benissimo che sono macchie di ustioni passate, tracce di ingenuità.
Le storie sono tante e nella mia mente si intrecciano inesorabilmente le une con le altre, ora Dragica mi parla di Fuad Halilovic, un giovane di 26 anni guarito dalla leucemia che ha dedicato la sua vita al supporto a bambini malati di tumore. Lavora per l’associazione “Srce za decu” (“Un cuore per i bambini”) di Sarajevo. E poi Admir Masic: la sua storia si incrocia per la prima volta con quella del CAP in un campo di accoglienza in Croazia dove vengono ospitati profughi bosniaci in fuga dalla guerra. Da quel campo, passando per l’Italia e la Germania, nel 2017 Admir decide di fondare al MIT (Massachusetts Institute of Technology) il Refugee ACTion Hub (ReACT), un centro destinato agli sfollati in tutto il mondo che ha come scopo creare nuove opportunità di formazione, utilizzando soprattutto l’insegnamento a distanza.
“Il volontariato non deve essere un dare per ricevere qualcosa in cambio” mi dice Dragica, che non ha mai pensato al suo lavoro in termini di guadagno: “le energie che noi investiamo vengono spesso incanalate da altre parti come nel caso di Admir o di Fuad, ed è questo il tipo di risultati che ci motivano ad andare avanti ogni giorno” – dal 1994 ad oggi. Forse Dragica non si aspettava che il progetto avrebbe avuto una vita così lunga, ma le conseguenze delle guerre, delle violenze si protraggono a lungo tempo, penetrano nei corpi delle persone, ne alterano la sostanza.
La mia mente vaga ancora, e quasi senza accorgermene mi ritrovo a sfogliare le pagine del libro “Tra il bene e il male. La Bosnia, il dopoguerra, la battaglia contro tumori e inquinamento a Zenica”, un regalo di Davide che custodisco ancora gelosamente: “Per Adna, un ponte tra la Bosnia e il Piemonte”: mi è sempre piaciuto leggere la dedica. Avevo conosciuto Davide in un pomeriggio estivo in una piazzetta di Torino, ero all’ultimo anno di triennale, scrivevo la tesi, Davide invece lavorava in Regione su progetti di cooperazione internazionale: che il vero ponte non fosse lui? Per me lo fu in effetti.
Mi fece conoscere una realtà di cui fino ad allora sapevo poco o nulla e che riguardava i progetti di cooperazione tra il cantone di Zenica Doboj e la Regione Piemonte che, leggo nel libro, culminano con l’inaugurazione nel 2008 del Polo oncologico dell’ospedale di Zenica, come continuazione dell’esperienza pilota di screening oncologico avviata anni prima nel Comune di Breza.
“Oggi l’ospedale cantonale di Zenica, grazie a questo lavoro, alle verifiche ed alla progettazione di percorsi diagnostico-terapeutici svoltisi in questi anni, può disporre di un servizio di oncologia provvisto di posti letto di ricovero ordinario, di day hospital e di spazi dedicati all’attività ambulatoriale. E siccome da cosa nasce cosa, è stata avviata la nuova anatomia patologica, rinnovata nei locali e nelle attrezzature, ed è entrata in funzione la radioterapia” ci racconta Marco Travaglini in un articolo pubblicato qualche anno fa.
L’esperienza, risultato di un impegno “corale”, che ha visto la partecipazione di donne e uomini che hanno creduto nella forza delle loro idee e che hanno investito una parte della loro vita per portare a compimento un progetto tortuoso e ostacolato in più occasioni, ha creato nuove opportunità di cura contro i tumori in una delle città maggiormente inquinate della Bosnia: Zenica appunto.
“Esempio positivo di contrasto al problema di fondo, all’eredità “nera” della guerra nei Balcani che ha prodotto un “buco nell’anima”: il disagio e le depressioni, i suicidi, il diabete e il “male oscuro” del cancro, originato dalla pessima alimentazione, dall’uranio impoverito dei proiettili che anche in Bosnia sono stati sparati. Un pessimo lascito che pesa come un macigno”, scrive ancora Travaglini.
E Cloto finalmente ha un volto, e non è un volto di donna crudele, di femme fatale o di anziana tessitrice, non è nemmeno un volto umano, ma bensì un mogul che governa i fili sottili delle vite umane, è un’acciaieria, è ArcelorMittal che opera da anni a Zenica senza curarsi delle conseguenze ambientali delle proprie azioni, è la profanazione del ventre della terra che ci ha allontanati dalla nostra stessa natura.
L’alba ti vede superbo,
ti vede umiliato il tramonto.
Nessuno troppo confidi
nella fortuna, nessuno
nella sventura disperi
di una sorte migliore.
Mescola la fortuna e la sventura
e impedisce, Cloto, che il destino
arresti la sua corsa, poi che al fato
è dato girare senza sosta.
Dèi così benevoli, nessuno
li ha mai avuti da potersi
promettere il domani. Un dio vi getta,
povere cose umane,
in un turbine rapinoso.
(Seneca, Tieste, 613)
Approfondimenti
(1) Un reportage sull’inquinamento a Zenica realizzato da Simone Modugno e Linda Caglioni per La Repubblica, 20 dicembre 2021. Disponibile qui.
(2) Uno studio pubblicato da HEAL, Sandbag, CAN Europe, CEE Bankwatch e Europe Beyond Coal ha mostrato che nel 2016; nei soli Balcani occidentali 3.906 persone sono morte prematuramente a causa dell’inquinamento atmosferico causato dalle centrali elettriche a carbone, la maggior parte delle quali al di fuori della regione, negli stati membri dell’Unione Europea.
(3) “Eko Forum Zenica”, associazione fondata su iniziativa di un gruppo di cittadini a difesa dell’ambiente.
L’immagine in copertina è stata scattata durante una cerimonia funebre a Zenica. Tratta dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e disponibile qui.