di Alba Mercolella
Il 24 giugno la Corte Suprema USA ha abolito la sentenza Roe v. del 1973, con cui si era legalizzato l’aborto negli Stati Uniti. Il diritto all’aborto è sempre meno garantito anche nella vicina Polonia, ma anche su altri versanti le cose non vanno affatto bene.
Dopo la decisione della Corte Suprema, per cui l’aborto non è un diritto tutelato dalla Costituzione, starà ai singoli Stati decidere come regolamentare l’interruzione di gravidanza. Molti si erano già portati avanti con le cosiddette “trigger law”, che per loro natura sono entrate in vigore subito dopo la sentenza. Già in 9 Stati non è possibile abortire legalmente, mentre altri 12 potrebbero seguirli presto.
Si fa in fretta. I conservatori di oggi si muovono velocemente, alzano molto la voce e stanno sempre di più prendendo piede. Anche nell’Unione Europea.
Il 22 ottobre 2020 il Tribunale costituzionale della Polonia ha limitato l’aborto legale, se non reso impossibile. La sentenza è entrata in vigore il 27 gennaio del 2021, e consente l’interruzione di gravidanza solo in caso di rischio di vita o della salute della donna, di incesto e di stupro denunciato e provato.
Una legge tanto restrittiva, in UE, si riscontra anche a Malta. Proprio qui, a una donna statunitense a cui si erano rotte prematuramente le acque è stato impedito di abortire. La donna ha rischiato la setticemia e la vicenda si è risolta con un trasferimento a Palma di Maiorca.
In Polonia il controllo delle donne è sempre più stringente. Presto verranno introdotte nuove norme, per cui i medici dovranno registrare e raccogliere dati dalle pazienti, anche sulle gravidanze.
Questo registro porterà di certo ad un ulteriore aumento di interruzioni di gravidanza fatte al di fuori dal sistema sanitario, perché le informazioni saranno visibili non solo ai medici. Abortire all’estero? Anche avendone le possibilità, la legge polacca punisce chiunque le aiuti: partner, medici, attivisti.
Su Euronews, Agnieszka Kurczuk si oppone alle nuove norme, e aggiunge:
“Le donne rischiano di essere spiate, controllate ed, eventualmente, punite per aver interrotto la gravidanza. Noi medici rischiamo di essere delle spie. Non ho intenzione di spiare le mie pazienti, non le denuncerò”.
Sapere che c’è qualcuno disposto a proteggere esseri umani a cui vengono tolte possibilità e diritti, fa sempre sperare in un mondo migliore. Senza queste persone, gli esseri umani possono essere annientati o annientarsi.
Ci si riferisce al caso nostrano di Cloe Bianco, che si è tolta la vita dopo essere stata allontanata dall’insegnamento ed essere rimasta sola. Per la sospensione di Cloe Bianco dall’insegnamento è in corso un approfondimento da parte del Ministero dell’Istruzione, avviata anche a seguito di dichiarazioni e di comunicati di alcuni sindacati. Se ci si può augurare che la vicenda venga chiarita, resta un suicidio in più nella comunità trans.
C’è chi si chiede dove sia il movimento LGBT+ a seguito di fatti simili. Lo fa senza mezzi termini Simone Alliva su Gay.it: al 22 giugno, a dieci giorni dalla morte di Cloe Bianco, fa notare che ci sono solo una petizione e un presidio a Treviso.
Eppure “c’è un mondo di gente là fuori che aspetta il segnale ed è pronta a partire”. Lo dice Alliva, ed i conti non sono errati: anche in Italia milioni di persone partecipano ai Pride (non ditelo a Pillon). Tante, abbastanza da poter organizzare almeno almeno delle fiaccolate in ogni città italiana medio-grande.
“Serve il corpo. Servono le gambe per andare e le mani per stringere altre. Resistere. Testa e cuore. Ragione e sentimento. Ritrovarsi fisicamente e rispedire al mittente tutte queste maledette azioni umilianti e degradanti, che ancora la politica e le istituzioni si permettono di vomitare addosso alla comunità a distanza di 51 anni.”
Le gambe e il corpo servono, finché puntare il dito contro ciò che è ingiusto sarà un gesto che si potrà fare senza perdere niente. In Polonia, dove nel 2019 sono nate le “Strega wolna od lgbt” (zone “lgbt free”), soprattutto nelle zone più provinciali molto difficilmente due persone dello stesso sesso si baceranno per strada.
In quello stesso anno, al Pride di Białystok gruppi dell’estrema destra hanno pestato a sangue sia i partecipanti che le forze dell’ordine presenti. Secondo Amnesty, la polizia non avrebbe protetto adeguatamente i manifestanti. Commenti e reazioni da parte del governo? Non pervenute.
A settembre del 2019 le regioni di Cracovia, Rzeszow e Lublino hanno cancellato lo status di zona lgbt free, soprattutto a seguito della decisione della Commissione europea di togliere i fondi a quei governi, come quello polacco e ungherese, che hanno messo in pratica misure discriminazione verso la comunità LGBT+
Sembra che siano le forze esterne quelle capaci di respingere certi rigurgiti. Infatti, se la suddetta decisione ha portato alla cancellazione delle zone “lgbt free”, la guerra in Ucraina ha avuto effetti favorevoli sul recente Pride di Varsavia di quest’anno. In tre ore di parata, per la prima volta, non ci sono state le solite contromanifestazioni dei gruppi di ultradestra: al loro posto, gli attivisti del Kiev Pride.
Varsavia non è però la Polonia intera. Qui il clima multiculturale riesce a prevalere sulle frange ultracattoliche conservatrici, ma si tratta pur sempre di un Paese in cui il 37% delle persone LGBT+ nasconde il proprio orientamento sessuale o identità di genere.
Se la questione Ucraina può aver fatto crescere lo spirito di solidarietà sul versante della lotta per i diritti delle persone LGBT+, in altri casi ha reso palese come “non si può accogliere tutti”. Ci si riferisce al doppio standard di accoglienza, che forse proprio nel contesto polacco si manifesta con tutta la sua forza.
Le migliaia di persone che cercano di arrivare in UE passando per il confine polacco-bielorusso devono rendersi invisibili, mentre cercano di raggiungere un Paese dell’UE che li accolga davvero e non li rimbalzi in Bielorussia. A Przemyśl, a pochi chilometri dal confine polacco-ucraino nella stazione ancora oggi dedicata all’arrivo dei profughi ucraini, ci si può far vedere e chiedere aiuto. Ovviamente, se si è ucraini.
Siamo stati in Polonia dal 16 al 19 giugno, dove ci siamo recati su entrambe le frontiere. Qui, ci è stato detto che alcuni di coloro che operavano sul confine con la Bielorussia hanno preferito prestare il proprio tempo sull’accoglienza degli ucraini. Il motivo non è banalmente la maggior semplicità e serenità di operare, ma l’estrema pesantezza che comporta dover operare nascosti, senza poterne parlare, rischiando di perdere il proprio lavoro e sacrificando la propria sfera sociale.
Rete metallica nella foresta di Białowieża, tra Polonia e Bielorussia (Foto di Vittorio Zampinetti)
In Grupa Granica, che fin dall’inizio aiuta le persone in movimento bloccate al confine, viene offerto un supporto psicologico e la possibilità di prendere delle “ferie” dalla parte operativa. Una tutela che indica un certo spirito di apertura, ma che ben esemplifica le condizioni in cui questi attivisti e volontari operano.
Tutte queste storie dimostrano una cosa sola: i diritti non si ottengono una volta per tutte. Si possono perdere così come si può perdere la libertà di difenderli, per cui è necessario chiedere certezza di tutela attraverso la legge ed il rispetto dei tanti Trattati. E poi non abbassare mai la guardia, prima che le cose vadano a finire più o meno così:
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.