di Adna Čamdžić
Appunti dall’evento “Annalisa Camilli racconta Susan Sontag”
Dalla serie “Giornaliste: Le reporter di oggi raccontano le icone del giornalismo del passato”
Circolo dei Lettori, 18/10/2022
La Russia ha invaso l’Ucraina il 24 febbraio per avviare un’operazione militare su vasta scala nel cuore dell’Europa, ma per molti la guerra era inaspettata, come la pandemia due anni prima, confermando il senso comune secondo cui non si è mai preparati allo scenario peggiore.
Lo aveva spiegato molto bene il giornalista Paolo Rumiz nel suo libro più bello sulla guerra nella ex Jugoslavia Maschere per un massacro: «Chi sta a guardare pensa alla guerra come una eventualità remota o a una catastrofe naturale come l’inondazione o il maremoto. Questo rivela un’altra legge aurea: la percezione del pericolo non aumenta, ma diminuisce con l’avvicinarsi dello stesso.
Con queste parole si apre l’ultimo volume di Annalisa Camilli “Un giorno senza fine. Storie dall’Ucraina in guerra” uscito recentemente per Ponte alle Grazie, in cui la giornalista e autrice del popolare podcast Da Kiev racconta il conflitto ucraino attraverso le storie delle persone direttamente coinvolte.
Il riferimento immediato è alla guerra in ex Jugoslavia. A 25 anni dall’aggressione in Bosnia ed Erzegovina, stiamo assistendo nuovamente ad una guerra a pochi passi dai nostri confini: dalla Sarajevo assediata che ha dedicato una piazza in memoria di Susan Sontag, ci spostiamo nelle tendopoli dei profughi di Leopoli, e ancora a Kiev sotto i bombardamenti con Annalisa Camilli.
Riavvolgendo il nastro del conflitto ancora in atto e la biografia dell’attivista politica radicale Susan Sontag, Camilli ci racconta al contempo la più ampia storia del giornalismo, di come cambia, come si pone di fronte a un tema così delicato come la guerra. Chi è l’inviato di guerra oggi e qual è il suo ruolo? Come cambia la tecnologia con cui i governi conducono la guerra di informazione? È possibile documentare la guerra con uno sguardo obiettivo? E quali sono i principali ostacoli al giornalismo indipendente?
Al Circolo dei Lettori, l’intervento di Camilli è un susseguirsi di citazioni, un posizionamento all’interno di una cronologia storica che ha visto diversi intellettuali esporsi in prima persona e portare il proprio corpo sulla linea del fuoco, dalla guerra civile in Spagna al più recente conflitto nei Balcani, per mantenere un racconto della guerra il più completo possibile superando le disinformazioni e le polarizzazioni della propaganda.
Giornalisti e romanzieri hanno proposto un nuovo modo di fare giornalismo di guerra. Mentre altri intellettuali preferirono rimanere semplici sostenitori morali, nel 1936 George Orwell partì come volontario per la Spagna, la guerra civile iniziata da pochi mesi, e decise di arruolarsi perché è “l’unica cosa concepibile da fare” combattendo la rivoluzione antifascista a fianco dei repubblicani. Ancora oggi, il suo diario-reportage “Omaggio alla Catalogna” è considerato come una delle testimonianze più nitide della storia del Novecento.
In modo quasi analogo, nessun luogo ha segnato la carriera e la vita di Hemingway più della Spagna, esperienza da cui nascerà “Per chi suona la campana”, che lo scrittore pubblica dopo aver passato vari mesi sul fronte. Camilli ne riporta l’epilogo: una celebre poesia di John Donne – un monito contro l’individualismo, un invito alla condivisione della sofferenza.
“Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.
Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”
– John Donne, “No Man is an Island”
E ancora, la stessa guerra civile spagnola è uno spartiacque nel pensiero della filosofa Simone Weil. Partita come giornalista e pur essendo dichiaratamente pacifista, una volta giunta in Spagna Weil si unisce alla colonna internazionale anarchica di Durruti, parte dei gruppi repubblicani. Tornando dal fronte, la filosofa si convince di quanto sia fragile la dicotomia tra oppressori e oppressi, tra buoni e cattivi, mettendo in rilievo la falsa contrapposizione tra fascismo e comunismo e il fallimento della guerra rivoluzionaria.
Qualche decennio più tardi, Susan Sontag si trova a Sarajevo. Nel 1993, mentre la città è sotto il più lungo assedio della storia europea recente, Sontag porta in scena, a lume di candela, “Aspettando Godot” insieme a Haris Pašović, regista teatrale che in quegli anni trascorse la maggior parte del suo tempo nella capitale bosniaca dando vita, oltretutto, alla prima edizione del Sarajevo Film Festival (tenutosi in pieno assedio, dal 25 ottobre al 5 novembre 1995).
“Non potevo essere nuovamente nient’altro che una testimone: limitarmi a fare visita alle persone e incontrarle, tremare dalla paura, sentire la rabbia, la depressione, avere conversazioni strazianti, diventare sempre più indignata, perdere peso. Se fossi tornata, sarebbe stato per rimboccarmi le maniche e fare qualcosa”, scrive Sontag in un articolo pubblicato nel 1994 in cui racconta l’esperienza nella direzione dello spettacolo, tra gioie e dolori condivisi.
Lo spettacolo denunciava a suo modo l’immobilità della comunità internazionale al tempo: il disinteresse delle superpotenze nei confronti delle immagini che arrivavano dalla Bosnia, la continua attesa di un intervento da parte di Clinton, la paura di un’escalation serba. Non si trattava solamente di diffondere le notizie al resto del mondo, tutti ormai sapevano e avevano sentito e visto gli orrori dell’aggressione, non si trattava nemmeno di rendersi utili – non sarebbe stato il teatro a fermare la guerra e di questo Susan era consapevole – ma si trattava di dare il proprio contributo affinché la dimensione umana non fosse totalmente perduta.
Torniamo quindi ad Annalisa Camilli. È il 4 marzo 2022, siamo nel piccolo teatro liberty Les Kuras di Leopoli, trasformato in un centro di accoglienza per profughi ucraini in fuga da Kiev, da Charkiv, da Mariupol. E poco dopo da Kiev ci arrivano voci di chi non è riuscito a fuggire durante i bombardamenti o ha scelto di rimanere – Camilli le trasmette registrate nel podcast di “Storie Libere“. Voci di altre numerose quotidianità trasformate, riadattate.
Dai testi scritti ai podcast: i reporter entrano in maniera sempre più invasiva nel cuore dell’azione, raccontandoci attraverso il proprio sguardo il dolore degli altri, riportandoci uno squarcio sulle loro vite, sulla quotidianità del conflitto. E ora tocca a noi scegliere dove collocarci, tra l’essere osservatori passivi di uno spettacolo atroce oppure analisti attenti delle immagini che consumiamo, in rivolta contro l’insensatezza della guerra, oppositori di una logica di sopraffazione.