di Federica Zanantonio Martin
Il racconto che presentiamo è il primo di una serie che verranno pubblicati prossimamente sul nostro sito e che narrano la storia di un incontro, di un’amicizia tra un ragazzo e una ragazza, di un viaggio iniziato in Guinea e mai terminato. Un racconto che condurrà il lettore a riflettere sul reale significato della parola clandestino.
Come afferma Jean-Paul Sartre, “Nommer c’est faire exister”¹. Ossia, dare un nome alle cose significa farle esistere.
Parte prima
È una sera decisamente fredda e il gelo di dicembre inizia a farsi sentire, specialmente quando cala il sole. Lo attendevo all’uscita dalla fermata della Metro 13 a Saint-Ouen, banlieue nord di Parigi, dove ormai abitavo da qualche mese, ospite a casa di un’amica.
La mairie era tutta addobbata con luci sgargianti e un gigantesco albero di Natale che occupava una parte della piazza principale del comune.
Era in ritardo, come al solito. Tutte le volte lo devo aspettare delle buone mezz’ore prima di vederlo fare comparsa tra la gente.
Era passato qualche mese dall’ultima volta che c’eravamo visti. In estate lo avevo accompagnato a tutti gli incontri prima con la Croix Rouge nell’11 arrondissement e poi con l’Ofpra² per la domanda di asilo.
Di solito, mentre lui affrontava questi colloqui, lo attendevo in qualche café. Faceva così caldo e sudavo tantissimo. Mi portavo sempre dietro un libro da leggere che poi finiva abbandonato irrimediabilmente sul tavolino, mentre controllavo il cellulare nella speranza che mi facesse uno squillo. Sentivo la sua ansia, la sua paura per quello che sarebbe stato l’avvenire e la facevo mia.
A giugno era riuscito a trovare un posto letto all’interno di un centro d’hébergement d’urgence del Samusocial per minori. Dormiva su un letto a castello e si lamentava della puzza di fumo e il chiacchiericcio continuo che gli impedivano di chiudere occhio durante la notte. Il centro si trovava vicino al périphérique nord, la tangenziale parigina, e accanto alla linea ferroviaria che porta verso il Belgio e oltre.
Ricordo quando lo accompagnai per la prima volta all’hotel. Avevo insistito. Forse per curiosità o forse per preoccupazione. Arrivata lì ero trasalita ma avevo provato a non esternare le mie emozioni. Non era di certo la prima volta che vedevo una struttura del genere e non sarebbe stata neanche l’ultima. Tuttavia, era la prima volta che avevo un amico che ci abitava. E forse questo faceva la differenza.
È per questo che non volevo che venissi, mi disse quasi rimproverandomi.
Non c’è nulla da nascondere, gli ripetevo.
Ed era vero. Di lui pensavo di conoscere quasi tutto. C’eravamo incontrati un anno prima a Ventimiglia. Mi aveva colpito per la sua sensibilità e gentilezza. Si era avvicinato lentamente al nostro banchetto. C’erano dei colori, ago, filo e una macchina da scrivere, un oggetto che molti di quei ragazzi non avevano mai visto in vita loro.
Ci aveva seguiti con lo sguardo. Era timido. Forse addirittura era pudore quella sensazione che potevamo intravedere sul suo viso. Sembrava nascondersi dietro alla sua compostezza, alla sua curiosità, agli altri ragazzi che gli stavano intorno.
Più tardi nel pomeriggio si era avvicinato sedendosi su una seggiola bianca di plastica e in silenzio aveva iniziato ad osservarci mentre parlavamo con altri.
Fu N., una mia amica, ad approcciarsi e a sciogliere con spontaneità e naturalezza quella che sembrava timidezza. E in pochi minuti, non ricordo neanche come, lui aveva iniziato a cantarci una canzone in francese.
Sul mio computer, ho conservato un video di quel momento che avevo prontamente deciso di immortalare con la mia videocamera.
Era il 2 maggio 2017 e lui, seduto su una seggiola di plastica, vestito con una tuta bianca e un giubbotto blu troppo pesante per la stagione, ci ammaliava con una canzone che gli cantava spesso la mamma. All’epoca non conoscevo la sua storia. Non sapevo che sua madre se n’era andata e che la colpa era dell’ebola.
Cantava con naturalezza, senza imbarazzo seppure non fosse particolarmente intonato. Ma colpivano l’intensità, il sentimento.
La sera lasciò insieme ad altri ragazzi il campo semi-improvvisato all’interno della chiesa di Sant’Antonio, nel quartiere Gianchette. Ci venne a salutare prima con la promessa che ci saremmo rivisti il giorno successivo, forse.
Non accadde. Il 17 maggio lasciai Ventimiglia e feci ritorno a Torino.
Qualche settimana dopo ricevetti un messaggio con su scritto: sono arrivato a Parigi, sto bene. Presa dall’entusiasmo decisi, insieme ad altri amici con i quali avevo condiviso il viaggio a Ventimiglia, di partire per raggiungerlo.
Lo ritrovammo a Porte de la Chapelle, ai bordi di Parigi. Ci sembrava più alto e più uomo ma lo abbracciammo con ardore. Da quel momento in poi non ci separammo più.
Coucou ma beauté, mi saluta agitando la mano davanti al mio viso.
Sei arrivato, stavo gelando, lo rimprovero bonariamente per il suo ritardo che ormai aveva oltrepassato la mezzora. Ricordo che per tutta risposta mi incalzò ricordandomi un “Tu sais …ça fait longtemps qu’on s’est pas vus”.
Aveva ragione, era passato qualche mese dall’ultima volta che c’eravamo visti.
On y va, gli dissi spronandolo a camminare. Lo spinsi verso il Boulevard e ci avviammo verso casa mia.
Camminammo per dieci minuti parlando del più o del meno. Mi chiese dei miei studi, dei miei progetti, mi disse che aveva terminato il libro che gli avevo prestato ma che l’aveva dimenticato.
Voilà, siamo arrivati, lo anticipai prima che potesse dire qualcosa.
Ci fermammo davanti ad un cancello e mi guardò interdetto.
Abiti qui? Ma è un HLM³? Lo chiese con stupore ma sogghignando.
Sì, è un HLM e allora? Vieni, lo ripresi sorridendo.
Ci avviammo verso il cortile. Camminavamo a pochi passi di distanza, lo ricordo bene.
Io davanti e lui dietro, lentamente e spensierati.
Police, police, ci disse con fare nervoso un ragazzetto forse neanche minorenne che si apprestava a scappare oltre il cancello che avevamo appena oltrepassato.
Era un avvertimento. Ci stava avvertendo.
C’era un operazione in corso dentro il mio palazzo, dentro a quell’HLM che fino a pochi minuti prima ci aveva fatto sorridere.
L’ennesima operazione di polizia in un quartiere abituato a tutto questo.
Ma ora era diverso. C’era anche lui con me.
Lui, senza documenti.
Fine prima parte
¹ Sartre, Jean-Paul. La responsabilité de l’écrivain. Paris : Verdier, 1998.
² Ofpra è la sigla utilizzata per identificare l’Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi. In concreto, si occupa principalmente della presa in carico e in esame delle domande di protezione internazionale (riconoscimento dello status di rifugiato, apolide o beneficiario della protezione sussidiaria) e in quanto organismo pubblico, è posto sotto la tutela del Ministero dell’interno francese.
³ Sigla di Habitation à Loyer Modéré : casa con affitto contenuto, gestita da organizzazioni pubbliche o private con parziale o totale finanziamento pubblico.