di Alba Mercolella
Il 21 ottobre siamo tornati in Polonia per le riprese di “Metalli Pesanti II”. Tra la capitale e il confine bielorusso, abbiamo conosciuto realtà e persone accomunate dalla stessa causa: non lasciare indietro nessuno e difendere i diritti per tutti.
Rispetto ai precedenti viaggi, qualcosa è cambiato in Polonia. Ci si riferisce alle recenti elezioni, che hanno portato ad un risultato inaspettato. Siamo partiti, dunque, con una domanda in mente: questo risultato è servito a dare speranza a chi si batte per i diritti (soprattutto quelli delle donne, delle persone LGBT+ e di quelle migranti), in un Paese che negli ultimi anni si è abbastanza impegnato per stralciarli? (SPOILER: no)
Donald Tusk ha dichiarato, a seguito dei primi spogli decisivi, “Questa è la fine dei tempi bui”. I diritti calpestati in questi anni sono stati davvero tanti. Qualcosa cambierà? Abbiamo provato a chiederlo alle persone conosciute in questo viaggio.
Quando un diritto viene calpestato, specie se viene dai più ricondotto a una categoria specifica, spesso viene difeso solo dalle persone che sono toccate da tale perdita e non ci si aspetta che le cose vadano diversamente. Infatti, quando le lotte sono portate avanti in questo modo e non sono intersezionali, finiscono quasi sempre per creare situazioni in cui ogni singola conquista deve essere conservata ardentemente con poche forze.
Molte delle persone incontrate durante i 14 giorni di viaggio incarnano proprio l’aspetto dell’intersezionalità. Cercheremo, quindi, di far emergere questo aspetto, troppo spesso sottovalutato.
Si entra ora nel vivo del racconto, che è il frutto della testimonianza di uno degli operatori che ha partecipato al viaggio. Come è bene fare, per tutelare chi ha voluto raccontare e raccontarsi (che non è mai poco, che non ringrazieremo mai abbastanza), i nomi verranno censurati e le iniziali dei nomi inventati di sana pianta.
L’arrivo a Varsavia, tra concerti black metal ed esuli bielorussi
La prima parte del viaggio ha avuto come base la città di Varsavia, dove si trovano due centri culturali, punti nevralgici dell’attivismo: l’Ada Pulawska e il Przychodnia. Qui infatti, oltre all’attivismo, trova spazio anche la scena musicale punk hardcore antifa di matrice anarchica. Tra i frequentatori abituali non si trovano solo polacchi, ma anche numerosi russi, ucraini e bielorussi.
A proposito, può capitare di incontrare degli esuli fuggiti proprio dalla vicina Bielorussia, come è successo durante un concerto black metal all’Ada Pulawska la sera del 22 ottobre.
Concerto a parte, c’è stato anche il tempo per parlare con alcuni di loro senza che la musica sovrastasse le voci. Ad esempio, durante una delle conversazioni, A. ci ha raccontato di essere finito in carcere per aver partecipato alle proteste a seguito dell’ennesima rielezione di Lukashenko (che si sono svolte tra il 2020 e il 2021). Una volta scarcerato è fuggito in Polonia e il ritorno nel Paese natio non è un’opzione: se andasse lì rischierebbe di nuovo la detenzione, se non la vita. Per questo, molti bielorussi presenti in Polonia sono rifugiati politici.
Nella stessa serata c’è anche stata un’occasione di confronto con una una ragazza ucraina e una russa, entrambe scappate all’inizio della guerra in Ucraina ma da due diversi Paesi, ancora in guerra. La prima è scappata per il conflitto, la seconda per la repressione.
Dato che con lo scoppio della guerra gli esuli russi non vengano visti più di buon occhio, probabilmente non si sarebbero potute incontrare ovunque, a dimostrazione del fatto che in questi ambienti l’intersezionalità sia essenziale: la tutela dei diritti umani è per tutti, senza distinguo, e ciò che conta è quello che una persona pensa e difende e non la sua provenienza.
Proposte che nascono dal basso su iniziativa di gruppi e organizzazioni indipendenti, che si riuniscono nei centri culturali della città, sono fonte di apertura. Conoscerle ha permesso di poter scoprire da vicino le diverse realtà dell’attivismo, non solo (ma sempre più spesso) dedicate esclusivamente ai diritti delle persone in movimento.
Va ricordato che Varsavia è da tanto tempo un crocevia e un punto di approdo per le persone “sgradite” nei Paesi più a est. Centri come l’Ada Pulawska e il Przychodnia sono importanti perché, oltre ai concerti, offrono ospitalità, ascolto e supporto a chi ne ha bisogno.
Fra Białystok e il confine insieme a vecchie e nuove conoscenze
Dal 24 ottobre, il viaggio è proseguito verso luoghi e persone già conosciuti. C’è stata però anche l’occasione di conoscere nuove realtà e nuovi volti.
Tra loro c’è F., attivista polacca di Queer Without Borders incontrata a Białystok che opera sul confine. Con lei abbiamo parlato delle attività di soccorso nella foresta di Białowieża e di come, quando si incontrano migranti LGBT+, le difficoltà si moltiplicano. La queerfobia e il razzismo imperversano e sono rivolte non solo alle persone del posto, ma anche a coloro che arrivano da lontano e sono fuggiti da conflitti o persecuzioni, alla ricerca di un luogo dove poter essere sé stessi.
Durante i giorni trascorsi sul confine ci sono state tante altre occasioni di dialogo e confronto con realtà e persone che operano laggiù, dando una mano dove necessario. Le loro attività e testimonianze saranno oggetto del reportage “Metalli Pesanti II” e lo sarà anche un triste fatto, estrema rappresentazione delle conseguenze della crudeltà dei confini.
Qualche giorno prima di raggiungere il confine, nel Distretto di Hajnówka è stato trovato un ragazzo siriano morto, mentre un altro è deceduto prima che arrivassero i soccorsi dopo che aveva cercato di sfuggire a un respingimento.
Il pomeriggio del 26 ottobre, in una chiesa ortodossa, si è tenuto il funerale celebrato da un prete ortodosso e da un imam. C’erano delle telecamere, probabilmente di una qualche tv locale. Dopo la celebrazione c’è stata la sepoltura nel cimitero adiacente, accompagnata da canti incomprensibili a chi non conosce il polacco.
Queste due vite, schiacciate dal confine, sono state commemorate e ora riposano. Pensare al concetto di riposo, davanti a fatti del genere, intensifica la rabbia che umanamente si può provare davanti a ingiustizie così gravi. Loro, e tanti altri, non dovrebbero riposare per sempre sepolti vicino al confine che avrebbero dovuto poter superare, definitivamente privati di vivere la vita che stavano cercando.
“È vero che la rabbia cresce ogni giorno, ma dobbiamo fare in modo che questa rabbia sia la nostra forza per continuare a combattere.”
Questa frase è stata pronunciata da chi era presente quel giorno ed è preziosa: incanalare la rabbia è sempre un buon rimedio per rendere certi impulsi funzionali. Quasi come un consiglio da conservare con cura e a cui appellarsi quando ci si sente sopraffatti.
Un’altra nuova conoscenza è stata G., che tempo fa lavorava a Varsavia con le persone provenienti da fuori dall’UE, occupandosi di documenti e regolarizzazione. Da lì si è spostata sul confine, dove il suo lavoro è diventato inevitabilmente più operativo: c’è da soccorrere prima di poter passare agli aspetti legali.
Dice che non tornerebbe mai indietro, anche se dalla crisi partita nel novembre del 2021 è diventato tutto più difficile nel suo campo. Lei crede nell’intersezionalità della lotta, soprattutto dopo la criminalizzazione della solidarietà, che ben ha potuto tastare attraverso il suo lavoro, e il calpestamento generale di diritti come l’aborto, quindi riguardanti il corpo delle donne polacche e non solo. Ci si riferisce al caso delle donne ucraine fuggite in Polonia, a cui questo diritto è stato negato malgrado lo stupro sia stato utilizzato come arma di guerra da parte dell’esercito russo.
Una parte del lavoro più operativo è stata fatta insieme a K., una vecchia conoscenza presente sul confine. Si è trattato di preparare dei borsoni con cibo e vestiti, destinati a delle persone in via di dimissione da uno degli ospedali locali.
Sì, certo, talvolta le persone ferite dal filo spinato o stremate dalle estreme condizioni della foresta vengono soccorse e portate in ospedale. Peccato che quando escono non hanno nessun genere di aiuto e rischiano di essere riportate in Bielorussia, da dove verranno respinte nuovamente dai soldati verso la Polonia.
Altre volte, questi borsoni sono utili alle persone rinchiuse nei centri chiusi per i migranti, che non garantiscono ciò che è necessario a chi non può procurarselo con mezzi propri. Per quanto anche in Italia politiche di inserimento e di integrazione siano sempre più ridotte, in Polonia è ancora più difficile riuscire ad inserirsi lavorativamente anche perché riuscire ad ottenere lo status di rifugiato è quasi impossibile.
Un’attività simile è stata svolta qualche giorno dopo, prima di ritornare a Varsavia e concludere il viaggio, insieme a T., proprio a sostegno delle persone rinchiuse nei centri di detenzione per migranti. Ciò che ha raccontato sulle condizioni inumane in cui versa chi è rinchiuso, come le condizioni igieniche totalmente inadeguate, fa impressione. In particolare, per quanto esista un minimo di pocket money anche in Polonia, ognuno deve provvedere da sé anche per il cibo, venduto negli spacci presenti all’interno dei centri. Se non hai soldi, digiuni.
Prima di incontrare T. e di lasciare la foresta c’è stato il modo di avvicinarsi al muro insieme a chi, fra le prime, ci ha mostrato la foresta.
L’ultima volta che l’abbiamo incontrata era ancora in vigore la cosiddetta “red zone” e la costruzione del muro stava per terminare. A distanza di anni, P. è stanca e disillusa circa un miglioramento della situazione. Come due anni fa, la sua voce è coperta dal rumore delle camionette che ancora vanno e vengono sulle stradine della foresta. Nonostante ciò, sostiene che i militari siano diminuiti.
Attivista e donna in un Paese che alle donne toglie diritti, si sente stanca. Ci ha detto che il risultato elettorale non è stato festeggiato da nessuno e, probabilmente, complice è stata la stanchezza. Continua però a lottare insieme a realtà differenti ma unite da obiettivi coincidenti.
Il muro non passa solo in mezzo alla foresta, ma anche in spazi aperti. In uno di questi punti, il muro si interrompe per lasciar scorrere il fiume. Proprio in una zona come questa, insieme a H., si è creata un’occasione di confronto con uno dei militari che hanno il compito di pattugliare la frontiera.
Il soldato li ha fermati e ha iniziato a chiacchierare amichevolmente con H., forse proprio perché avvilito e abbattuto dal suo lavoro. Sembra davvero difficile non essere legati alla foresta, per chi ci è nato e per chi ci vive: si è sfogato rimpiangendo i tempi in cui ci andava a passeggiare con la moglie, anziché dover andare a caccia di chissà chi.
Da quando il confine è stato militarizzato ci sono stati almeno tre suicidi tra chi pattuglia la frontiera. Molti si devastano con l’alcol nel tempo libero.
La brutalità del confine uccide chi cerca di passarlo, fa montare la rabbia in chi ha cercato di evitare ogni singola morte e dolore, porta il buio anche nelle vite di chi quel confine si è trovato a pattugliarlo per lavoro. Non essere piegati da tutto questo è davvero difficile.
Il ritorno a casa
Prima di rientrare in Italia abbiamo preso appuntamento con Saria Jarosz, che come F. fa parte di Queer Without Borders. Anche lui ha riportato le difficoltà quotidiane che si riscontrano operando con i rifugiati che arrivano nella capitale dal confine, ma anche del rischio di essere travolti da ciò che si vive e delle alte probabilità di burn out.
Una cosa che questo viaggio ha in qualche modo ribadito, è proprio quanto sia difficile stare sul pezzo in un contesto operativo così difficile.
Scontato, certo, e continuiamo a ripeterlo ogni volta che parliamo di confini (e di questo confine in particolare) perché essere pochi fa sentire soli. Però, non si è soli. Tra l’adrenalina, i pochi fatti belli e i tanti fatti dolorosi, soli non ci si sente.
Nonostante i funerali, le persone dimesse da ospedali con addosso le cicatrici indelebili del filo spinato e quelle rinchiuse nei centri di detenzione che hanno bisogno di tutto, i soldati che non riescono a guardarsi allo specchio, attivisti e volontari non hanno un atteggiamento arrabbiato o rancoroso. Si deve fare e si fa quello che c’è da fare e si fa: non c’è tempo da perdere e questo porta ad ottimizzare tempo e risorse. Sanno di essere in pochi, ma sanno di non essere soli. Per chi mi ha raccontato questo viaggio è stata una lezione di umiltà, professionalità e bontà.
Questa narrazione è dedicata a loro e a tutte le persone che, quando stanno sui confini, si incontrano unite da intenti comuni. Non si lascia nessuno da solo, né esposto alle intemperie, né alla fame, né privato del diritto di vivere una vita degna. Si sta insieme, a preservare l’umanità che resta.